Ci vogliono budget colossali, star di Hollywood e battage pubblicitari fantasmagorici per fare un grande film? Nell’era di Berlusconi eravamo convinti di sì, nonostante clamorose e brucianti smentite come Baaria di Giuseppe Tornatore, ma in tempi di crisi scommettiamo di no. E lo prova il piccolo gioiello del recente festival di Venezia, L’Intervallo, girato con pochi mezzi ma lucida maestria da Leonardo di Costanzo, stimato documentarista soprattutto all’estero, e reso ancora più intenso dalla fotografia di Luca Bigazzi. Offuscato in patria dalla mediocrità di Bella Addormentata, all’Intervallo sono andati tanti piccoli premi, che dimostrano ancora una volta lo sguardo strabico dell’Italietta incapace di puntare sulla qualità, troppo spesso confusa con parate di nomi – ahinoi – noti e apprezzati dal pubblico teledipendente di casa nostra, ma incapaci di varcare la soglia del cinema internazionale.
Di tutti i figli d’arte che affollano i filmetti tricolori Di Costanzo non solo fa a meno, ma sceglie volutamente la sobrietà, la semplicità e la verità. Senza moralismi, demagogie o strizzatine d’occhio al piccolo schermo. Al contrario, punta sulla straordinaria capacità dei luoghi di esprimere la forza della loro anima, quel genius loci di cui il nostro paese non è secondo a nessuno. E scova così l’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli, costruito alla fine dell’Ottocento e abbandonato da decenni: lo scenario incantato delle avventurose esplorazioni di due adolescenti napoletani (gli attori Alessio Gallo e Francesca Riso), che si trovano a dover trascorrere un’intera giornata chiusi nell’edificio, per volontà di piccoli boss della camorra. Girato in presa diretta, senza ingombranti colonne sonore, il film è tutto giocato tra il luogo e i dialoghi dei due protagonisti in un napoletano pieno di parole magiche come “abbabbiare”, che arricchiscono di colori e tradizioni mai sopite una trama tanto semplice quanto immaginifica.
E davanti alle scene dell’Intervallo vengono alla mente i protagonisti dei romanzi di Elsa Morante, Arturo nella sua isola e soprattutto il piccolo Useppe, il bambino della Storia, ma anche i ragazzi di vita di Pasolini e il Cosimo del Barone Rampante di Calvino, che vuole vivere sugli alberi senza mai scendere a terra. La capacità di meravigliarsi delle cose più semplici, che ha attraversato poesia, letteratura e cinema di tutto il nostro Novecento, nell’Italia di oggi sembra essere scomparsa, sostituita da una melassa di matrice televisiva composta da personaggi che copiano maldestramente la cinematografia statunitense. Siamo ancora capaci di interpretare i luoghi meravigliosi della penisola, in molti casi ancora sconosciuti, come fece Fellini con Rimini o Pasolini con Roma? Legare l’immaginario filmico all’esplorazione del proprio territorio, per raccontarne i cambiamenti, l’evoluzione, i sentimenti di chi lo vive quotidianamente? Ai profeti dell’internazionalità potrebbe sembrare un’eresia, una gabbia da provinciali, ma personalmente ritengo che sia l’unica, vera possibilità di fare cinema, per dare vita a personaggi come la Gradisca, il principe Fabrizio Salina, la Ciociara o i ladri di biciclette.
Un applauso dunque a Di Costanzo (che molti confondono con Saverio Costanzo) capace di farci tornare ragazzi per sognare di attraversare oceani su una barchetta a remi e ad imparare i significati nascosti nei canti degli uccelli, che affondano in tradizioni popolari spazzate via da google e web. Con un piccolo grande film ci fa sperare in una possibile e luminosa via d’uscita per il nostro cinema, quello più vero e profondo, che non smette di piacere al mondo.
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