Per Servio, spazi identitari sacri e condivisi; per noi, inutili rovine o frammenti di memorie ignorate da un pubblico che vive e cerca sempre di più una spettacolarità passiva, necessaria per rimuovere l’abissale vuoto di senso del quotidiano. Ben vengano quindi le mostre allestite in spazi dimenticati, che vengono interpretati dagli artisti in maniera diversa e sorprendente, per invitarci a riflettere sull’essenza recondita di un impoverimento semantico ben celato da una coltre di schermi e informazioni, apparentemente scintillante ma in realtà nevrotica e autoreferenziale.
Due esempi tra tutti: la personale di Cyprien Galliard alla Caserma XXIV Maggio a Milano, curata con magistrale precisione da Massimiliano Gioni, e quella di Luigi Ontani al Museo Andersen a Roma, ordinata con passione e curiosità da Luca Lo Pinto. La prima è ospitata nelle cucine dove fino al 2005 veniva sfornato il pane per tutte le caserme della Lombardia: ancora oggi, camminando per gli stanzoni comunicanti tra loro che ospitavano i forni, sembra di sentire lo scalpiccio dei passi dei fornai. Ogni ambiente accoglie un’opera dell’artista francese che analizza con il rigore di un antropologo forme e segni che punteggiano la civiltà globale, da Anghor Vat a Los Angeles, e ne rappresenta l’attrazione per la distruzione con inquietanti video incentrati sulla demolizione di palazzoni-dormitorio che scompaiono in nuvole di polvere e detriti. Un equilibrio tra pars construens e destruens che l’artista suggerisce senza fornire chiavi interpretative ma attraverso dispositivi che procedono per analogie, in un itinerario di immagini fisse e in movimento condotto con una regia intensa e consapevole, che esalta la monumentalità proto industriale dell’ambiente, denso di tracce visibili e invisibili della sua funzionalità perduta. «Lo spirito del luogo si mimetizza nei modi e nelle forme più impensati, esso è il misterioso graal per pochi iniziati che sanno come schiudere il varco, come orientarsi in questi paesaggi di trame e di enigmi», scrive Attilio Brilli, acuto conoscitore della letteratura di viaggio.
Opposto il caso del museo Andersen, la dimora decadente e sovraccarica di Hans Hendrik Andersen, ricco scultore danese vissuto a Roma all’inizio del secolo scorso, autore di statue ispirate dall’idea di resuscitare una classicità perduta. Icona dell’eclettismo, la casa studio ha mantenuto i ricordi di un’esistenza complessa e tormentata, tra amori omosessuali nascosti, madri dominanti e sorelle complici e devote. Uno stage ideale per mettere in scena le origini dell’immaginario di Ontani, attraverso opere giovanili poco note o inedite, dove ritroviamo problematiche vicine a quelle di Andersen, ma vissute in maniera più libera ed esplicita.
L’artista si inserisce in questa panoplia di corpi nudi in pose improbabili con interventi leggeri ma significativi, che ne esaltano l’eccessiva e paradossale fisicità attraverso maschere orientali, erme in ceramica e costumi teatrali, in una sorta di “sinfonia dell’eccesso” che permette di riguardare l’opera di Andersen, apparentemente anacronistica, da un punto di vista inaspettato, quasi a voler ricreare una linea di continuità tra i due artisti. «L’anima del luogo deve essere scoperta nello stesso modo dell’anima di una persona», suggerisce James Hillman, che di anime se ne intendeva non poco. Nelle sale sospese nel tempo del museo si incontrano due dandy dell’arte, Andersen e Ontani, per rivivere una condizione comune, rivelatrice di inaspettate complementarietà, in un sottile ed efficace gioco di armonie ricercate à rebours.
P.S. Se lo spirito dei luoghi vi ha catturato, consiglio un prezioso libretto di sole 84 pagine: Francesco Bevilacqua, Genius Loci. Il dio dei luoghi perduti, Rubbettino, 2012
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