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Ho visto una mostra recentemente che non ha l’aspetto di una mostra. Si tratta più propriamente del recupero di un pensiero. Qualcosa di molto vicino all’universo del Piccolo Principe che prova a condurre gli adulti verso un mondo a cui non appartengono più. Qualcosa di onirico, ma fortemente reale.
Queste impressioni – assolutamente soggettive – mi sono state sollecitate dalla visita alla Fondazione Pescheria di Pesaro, dove fino al 9 Dicembre 2012, è possibile esplorare il “Prototipo di macchina per la conquista del mondo” costruito sul rapporto spazio-visione. La scenografia, meticolosamente architettata da Sergio Breviario (1974), conduce l’osservatore all’opera, passo dopo passo.
Ogni mostra per Sergio è qualcosa che deve necessariamente relazionarsi con il vuoto che la ospita. Così anche questa volta l’artista non tradisce le aspettative e mette in gioco lo stesso visitatore accompagnandolo nel suo mondo metafisico, fatto di disegni a matita dove i mezzitoni e i chiaroscuri svelano i particolari solo ai più attenti, e dove il ruolo di disegnatore sembra impunemente messo da parte per cedere il suo tempo a un concerto di forme tridimensionali.
Lo spazio della sala ottagonale che ospita l’intervento – facente parte dell’ex chiesa del Suffragio restituita al pubblico circa dieci anni fa sotto forma di luogo espositivo – non è per niente semplice da gestire. Soprattutto se a condurre il gioco è un artista che il suo apice di colloquio con il pubblico lo raggiunge attraverso la bidimensionalità del disegno.
Ed è proprio qui che viene fuori il sacrificio del disegnatore per favorire l’opera complessiva. In un contesto del genere a primo impatto è offerta al pubblico una costellazione di “macchine”, come usa chiamarle Sergio, in grado di tenere lontano lo sguardo dal disegno generando una visione d’insieme fatta di scale, corrimano, parallelepipedi e piccole sfere simili a lampadine gonfiate. Tutto allestito seguendo la posizione delle stelle del suo zodiaco. «Forse troppo», esclama qualcuno nella folla durante l’inaugurazione. Ma la “fatica” dei gradini è ben ripagata quando ci si trova di fronte ad ogni singolo disegno: aulico, sacrale, immerso nel silenzio di personaggi che riverberano una lontana parentela con le linee dei volti interpretati da Gino De Dominicis. Un richiamo che scuote prepotentemente l’occhio dell’osservatore ponendolo in stretta relazione con la mente dell’artista. Un tête à tête obbligato sinonimo dei tempi di un innamoramento.
L’impressione complessiva è un rapporto platonico tra il momento di sacrificio – offerto dalle scale che separano dal soggetto – e l’aspettativa dell’incontro con il soggetto ritratto, un percorso obbligato per il raggiungimento dell’obiettivo, un sorta di camminamento mitologico dove Orfeo accelera il passo per voltarsi il prima possibile verso la sua Euridice.
Quello che resta è una visione d’insieme ricomponibile solo all’interno della mente di ognuno di noi, come un sogno elaborato durante le prime luci dell’alba, e così «mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando loro se il disegno li spaventava. Spaventare? – mi risposero – Perché mai dovremmo essere spaventati da un cappello?. Ma il mio disegno non era il disegno di un cappello, era il disegno di un boa che digeriva un elefante e affinché vedessero chiaramente cosa fosse, disegnai presto l’interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi».
(liberamente tratto da Il piccolo principe di Antoine De Saint Exupéry)