Categorie: curatori

Parola di curatore

di - 14 Maggio 2012

La pittura è un gesto lirico che al contempo si rivela immanente e ingenuo nella sua forma. Tutti si sentono in grado di leggerla perché abituati ad avere a che fare con una lunga storia percettiva rivolta al supporto tradizionale, che sia esso tela o pagina, e alla traccia cromatica come segno grafico. E proprio a causa di questa immensa zavorra visiva, trovo che non ci sia nulla di più difficile oggi che fare della pittura.
La storica villa veneta del Guado dell’Arciduca a Nogaredo al Torre sta ospitando, dal 10 aprile, una residenza per pittori sotto i 40 anni selezionati da Luca Bertolo, Francesco De Grandi, Maria Morganti e Marco Neri in qualità di tutors e da Andrea Bruciati, ideatore del progetto. La residenza comprende due mostre e un calendario di incontri, coordinato da Eva Comuzzi, con studio visit di critici, confronti con i tutors e colloqui con il pubblico arricchendo l’ambizioso progetto che rientra nel modello di riqualificazione “Nogaredo Dimora Storica Borgo Territorio. Polo Condiviso”, diretto dall’associazione Pas de Tor.
All’interno delle due Barchesse adiacenti la villa sono ospitati gli atelier in cui i dieci artisti lavorano l’uno a fianco all’altro, instaurando una felice connessione non solo, come espresso dal curatore, con l’architettura settecentesca della dimora, ma tra le diversità degli artisti invitati.
L’energia che si respira qui è positiva e rilassata, in pochi giorni di convivenza si avverte sinergia e partecipazione tra i pittori ospiti della residenza. Mi aggiro per gli studi costatando che in un paio di settimane gli artisti hanno trovato terreno fertile e stimolo per lavorare.

Comincio a chiacchierare con Gionata Gesi Ozmo. Sopra un enorme telo pubblicitario, da cui ha ricavato solo la parte superiore della testa di due modelle dallo sguardo accattivante, ha cominciato a dipingere una deposizione. La pittura oleosa, quasi esclusivamente ridotta a varianti di bianco e nero, rivela un tratto quasi manieristico. Le membra adagiate del Cristo si rispecchiano in una ieratica stalagmite, forse metafora della pittura stessa. Il contrasto percettivo, dato dalla pittura sul telone, produce un gioco di discrepanza tra sfondo/superficie, come se il significante e il significato fossero su piani interpretativi diversi, per questo dialoganti solo trasversalmente.

Ci sono moltissimi lavori su carta e collage nell’atelier di Thomas Braida. Ci guardano i suoi esserini e i suoi fantasmi, sembrano aver preso vita autonoma sulle pagine dei suoi quaderni. Le ultime tele rivelano una notevole evoluzione del suo lavoro, ora rivolto più alla costruzione spaziale del dipinto che non al soggetto stesso che diviene pretesto architettonico. Anche i colori sono ammorbiditi e uniformi, regalando alla superficie pittorica un inspiegabile sapore invecchiato.
Il lavoro di Vito Stassi sembra volgere verso la graduale scomparsa del soggetto. Procede per velature, aggiungendo e avvolgendo con lo scopo di allontanare il referente, sino a trasformarlo in un’ombra sempre più indistinta. Cancellare è per lui sinonimo di alleviare, rendendo impalpabile e vellutata anche la morte stessa, non più trauma ma riposo e pace. Il calderone internet gli fornisce gran parte dei soggetti, permettendogli il giusto distacco per la sua delicata operazione di scavo della memoria.

Partendo da un’analisi appassionata sul colore e sulle sue reazioni ottiche che provoca, Dario Pecoraro si imbarca in un viaggio alla ricerca della rifrazione impossibile, del colore inedito e della visione indecifrabile. Interni dal sapore matissiano, piante e nature morte dal gusto simbolista tentano di fuggire una volta per tutte ad una formalità compositiva tradizionale, sperimentando invece la riproduzione dell’atmosfera pura, fine a se stessa.
Anche il lavoro di Riccardo Baruzzi ha respirato a pieni polmoni l’aria di questa residenza, restituendo alle tele quel po’ di quella figuratività abbandonata da diverso tempo. Fanno timidamente capolino alcuni freschi ritratti, profili, cappelli. Sono retaggio di visioni sedimentate, elaborate, convertite e infine dispensate. Il lavoro è sempre debito ad una riflessione sull’atto creativo che genera la pittura, un’azione che si svolge non solo sulle due dimensioni del quadro ma anche nella terza dimensione all’interno della quale ci muoviamo e soprattutto attraverso lo scorrere del tempo.

Silvia Chiarini sviluppa il suo pensiero creativo partendo da semplici dati fenomenici che possiamo osservare quotidianamente. Per lei la pittura è esperienziale e dotata in primo luogo di quella elasticità attraverso cui lei stessa rimbalza da un medium all’altro confondendoli e amalgamandoli sulla tela. Pittura sì, ma anche grafica, disegno, ricamo, alla ricerca di quella tensione percettiva in grado di evocare e convertire le sensazioni di chi osserva. Testa gli equilibri anche nell’ultima produzione in cui la natura, da pretesto formale, diviene referente icastico andando ad occupare con segni orientaleggianti distese atmosfere dai colori pastello.

Partendo da diverse osservazioni sulla disposofobia, o sindrome dell’accumulo, Lucia Veronesi approfondisce una ricerca sulla sua diffusione metaforica nella società occidentale. Da diversi esperimenti video in stop motion la sua ricerca passa poi alla pittura, intesa per lei come verifica di diversi media. Partendo da un foglio bianco, vissuto esso stesso come oggetto e non come supporto, procede depositando stralci di immagini recuperate da riviste assieme a strati pittorici che sembrano invadere, macchiare, oscurare la scenografia data dal collage. Crea così un’apparente disposofobia segnica al di fuori della quale esiste il respiro dato dal foglio bianco, quasi mai del tutto invaso.

Il lavoro di Pesce Khete riparte in questa residenza dalla sua ultima produzione rivolta al paesaggio. La forza che emanano i suoi dipinti è il risultato del sodalizio tra il gesto che produce la forma, il colore carnoso degli oilsticks e la scelta di soggetti “familiari”. Osservazione dal vero e libri di storia dell’arte sono i suoi strumenti privilegiati per reiterare la realtà impastandola nella sua pittura che accoglie e rigetta, racconta e censura, seduce e ignora. Nella poetica dell’artista sta acquistando un posto privilegiato la fotografia, allestita e vissuta allo stesso modo dei suo quadri, unificandosi con essi.
Dipinti, la cui conturbante simmetria mi evoca qualcosa di non immediatamente comprensibile, raccontano una processualità che coinvolge il significato della pittura stessa. Sara Enrico sta lavorando su una serie di lavori in cui convivono due procedure tecniche agli antipodi. La prima consiste nel considerare la tela come pennello: dopo la prima stesura di colore, la tela viene piegata e il pigmento si distribuisce arbitrariamente su di essa creando giochi di simmetrie. La seconda procedura è una minuziosa modificazione della pellicola pittorica utilizzando pennelli o bastoncini. In particolare nei due dipinti monocromi prodotti in residenza, l’effetto è quello di un lavoro di sinestesia che ci permette di tastare con gli occhi, non essendo distratti da altre stimolazioni cromatiche.

Appena arrivato da Glasgow, Ivan Malerba estrae dalla sua borsa due piccole tavolette per raccontarmi il suo lavoro. Descrivono, con precisione lenticolare, le piume cangianti di due uccellini immersi in una realtà dall’atmosfera appiattita e irreale. Si viene catapultati in un mondo a metà strada tra fiaba e iperrealismo, diritti verso la limpida immaginazione del pittore. Scarnifica e abbonda nei suoi dipinti, soppesando con apparente ingenuità segni iconici e minuzia analitica, restituendoci un mondo sospeso e cristallino.

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