Alice, presentati per favore.
«Vivo e lavoro a Gorizia e ho trent’anni esatti, compiuti a giugno».
Come fai a riconoscere la qualità o meno in un’opera? Cosa valuti per capire se ti trovi davanti a un’opera d’arte valida?
«Mi fa davvero piacere rispondere a questa domanda. Proprio oggi mi è capitato di parlare con una persona per un progetto didattico la quale, quando ho raccontato che lavoro come curatrice d’arte contemporanea, mi ha domandato, con tono un po’ stizzito: “Cosa intendi per arte contemporanea? Cinema, pittura, scultura?” Devo dire che mi capita spessissimo di confrontarmi con persone, anche molto colte o “studiate”, che non hanno la benché minima idea di quello che è “l’universo arte”. Credo che un’altissima percentuale di italiani ignori completamente chi sia Duchamp. Sarebbe interessante fare un sondaggio… Molte volte mi sono chiesta il perché di questo. Un sistema dell’arte troppo snob e autoreferenziale? Una mancanza di formazione scolastica? Un disinteresse quasi totale da parte dei mass media? A dire il vero non saprei rispondere. Se dovessi spiegare che cosa fa di un lavoro un buon lavoro, potrei dire che un buon lavoro si riconosce da diversi fattori che, combinati, permettono all’opera di essere (permettimi il termine in senso metaforico) tautologica, ossia di possedere un’evidenza di per sé, di essere “artisticamente autosostenibile”. Quando osservo un lavoro cerco di immedesimarmi nell’autore tentando il più possibile di entrare dentro l’opera. Tra i vari fattori, personalmente trovo importante che l’artista sappia fermarsi al momento giusto, abbia il coraggio di eliminare il superfluo e sia in grado di rendere facilmente leggibile il suo lavoro. Oltre è questo è tutto cuore ed emozione. Ci sono artisti unanimemente riconosciuti che non mi trasmettono nulla, sebbene mi accorga della portata del loro lavoro. Credo, per fortuna, che l’arte sia sempre e comunque legata al sensibile e credo che dovrebbe continuare ad esistere per tutti sebbene, come ovvio, i livelli di lettura e comprensione della stessa manifestino profondità molto diverse a seconda di chi osserva. In conclusione ogni opera d’arte parla un linguaggio, quello artistico che a sua volta non è mai mutuabile e comprensibile. Non è forse questo il suo lato migliore? Essere soprattutto intraducibile».
Come, dove e quanto la crisi economica ha influito nella tua professione? Ne stai risentendo? In generale e nel tuo caso specifico.
«Anche questa domanda mi tocca nel vivo… Personalmente sto vivendo un momento lavorativo molto difficile. Negli ultimi tempi ho sentito spesso dire che per fare il curatore si debba essere ricchi o di buona famiglia. Inizialmente la cosa mi irritava parecchio, mentre poi ho capito che non si tratta di un’affermazione cinica ma semplicemente realista. “I primi fondi che tagliano sono quelli alla cultura” è la frase che negli ultimi tre anni ho sentito pronunciare più spesso, seguita da un’alzata di sopracciglia che sottintende “come ovvio che sia”, a sua volta succeduta da un “è il primo settore che ne risente perché non è indispensabile”. Cosa su cui non sono affatto d’accordo. Anzi, ritengo che il male principe del pensiero comune sia ritenere la cultura superflua ed inutile o, nel migliore dei casi, che possa essere ripensata come gallina dalle uova d’oro, il modo migliore per risollevare le sorti economiche del paese, come direbbe criticamente Tomaso Montanari, a mo’ di «Disneyland culturale». Tutto questo credo sia ampiamente discutibile e ritengo che la millantata inutilità della cultura sia stata imposta da una scala di valori impostaci arbitrariamente. Detto questo, molti dei miei conoscenti che gravitano nel mondo dell’arte non si riescono a mantenere grazie ad esso. Alcuni hanno una doppia vita: pittore e commesso, curatore e guida turistica. E questo nel migliore dei casi, perché altri non riescono nemmeno a trovare un lavoro palliativo che possa garantire l’autosufficienza per poter continuare a fare l’artista o il curatore. Per quanto mi riguarda, a luglio mi sono abilitata all’insegnamento di storia dell’arte e devo aspettare il 2014 inoltrato perché possa appena inserirmi nelle graduatorie…».
Quanto peso ha il giudizio di un critico d’arte sul lavoro di un artista? E una galleria quanto influisce sul suo successo?
«Se il critico è influente sicuramente può fare la differenza per quanto concerne la visibilità degli artisti che segue. Non è infrequente che artisti mediocri diventino qualcuno perché nelle grazie di tal curatore o critico, come è altrettanto facile che artisti molto in gamba siano più sfortunati. Non c’è sempre meritocrazia, ma un bravo critico difficilmente ignorerà un artista davvero valido. Aggiungo tra l’altro, a costo di apparire brutale, che oggigiorno un artista non basta che sia un bravo artista ma deve anche saper essere un buon manager di se stesso. Nell’era dei social network, piaccia o meno, l’artista bohémien è decisamente anacronistico».
A cosa ti stai dedicando al momento?
«Sto portando a conclusione parte di un grosso progetto regionale (Youth Talent) con l’associazione Dreamers di Udine con cui abbiamo imbastito diversi workshop per giovani artisti. Personalmente ho curato il workshop di scultura assieme all’Associazione E di Venezia, per il quale abbiamo invitato come docenti Francesco Carone, Eugenia Vanni e Nicola Genovese e di cui è ancora visitabile la mostra L’età dell’utile all’Oratorio di San Ludovico a Venezia; il secondo workshop che ho organizzato è quello di pittura per cui ho invitato come docente Lorenza Boisi. Inoltre mi sto occupando di altre due mostre, una che inaugurerà a gennaio presso la Galleria Massimo De Luca a Mestre e sarà una bi-personale di Giusy Pirrotta ed Elisa Strinna, l’altra, a marzo, sarà una mostra “curatoriale” presso la Mestna Galerjia di Nova Gorica».