All’università ho studiato cinema, poi la vita mi ha gradualmente portato a fare l’artista visivo. Però non mi sono mai liberato dal vizio di scrivere sceneggiature, una sorta di prodotto creativo inconsulto che mi ha silenziosamente accompagnato negli anni. Poi un giorno, appesantito dalle croniche preoccupazioni per la fattibilità e i costi delle scene che mettevo su carta, ho deciso semplicemente di scrivere la storia che volevo raccontare in forma di racconto. Godendomi il problema di non poter filmare la storia che volevo, l’ho scritta e basta. È stato molto liberatorio.
Come in moltissimi esordi letterari, le vicende raccontate sono spesso tratte dalla vita dell’autore o delle persone che ha incontrato nella sua strada. In fondo è quasi impossibile resistere dall’usare tutte quelle cartucce che si sono accumulate nel tempo, i migliori aneddoti, le fasi salienti, le Grandi Esperienze. Ma non mi è mai interessata l’idea di fare un’autobiografia, non volevo raccontare la mia storia, ma la storia di Martino Sepe, nella quale io posso finalmente esercitare controllo, togliermi degli sfizi, correggere ingiustizie e farmi compatire per traumi mai vissuti. Tutte occasioni appetitose. La vita invece è molto più sfuggente, fa come vuole lei, fregandosene della consequenzialità delle esperienze, della logicità dei fatti. La vita va avanti per assurdo. La mia intenzione è sempre stata quella di scrivere un romanzo, in particolare una commedia, un genere che richiede un ampio uso di paradossi, situazioni impossibili ed estremizzazione dei conflitti. Tutto è più grande, più difficile, più tragico, in una commedia. È un genere ideale per trattare il dolore. Cuore scuro di questo romanzo che fa ridere. Direi quindi che questa storia è una miscela indissolubile di finzione e realtà, e se dovessi essere più specifico mi azzarderei a dire che gli elementi incredibili del romanzo sono veri mentre il resto è tutto inventato.
Ho iniziato a scrivere le prime pagine di Goditi il problema ormai ben sette anni fa. Il processo è stato molto lungo, anche perché io mi occupavo di altro, delle mie mostre, e non sapevo neanche se qualcuno avrebbe mai letto ciò che stavo scrivendo. Poi un giorno, quando fra le mani avevo solo qualche racconto, ho incontrato Rosaria Carpinelli, la mia agente ed editor, e insieme a lei abbiamo percorso il lungo cammino che ci ha portato alla versione definitiva che è poi andata in stampa, edita da Rizzoli. È stato sicuramente un processo molto complesso, a volte estenuante, ma ho imparato moltissimo e ne è sicuramente valsa la pena. Lo rifarei subito.
La differenza che mi ha più sorpreso scrivendo questo romanzo, rispetto a quando produco delle opere per una mostra, è quanto si sia più avvicinato a quello che potrei definire il mio centro, o forse il mio io nudo, le mie passioni/ossessoni più intime. Facendo arte ricorro a metafore, parlo del mondo intorno a me, concentro lo sguardo sugli altri, osservo il loro sguardo. Mentre questo romanzo l’ho scritto interamente attraverso una soggettiva del protagonista, Martino Sepe, che potrei 0definire un mio alter ego. Si segue il battito del suo cuore con l’impressione che sia collegato a una macchina della verità, impossibilitato a mentirci: percepiamo la sua agitazione per un improbabile incontro amoroso, il cronico dolore dell’abnegazione, o l’ansia in linea diretta per l’ennesima tortura del suo tirannico capo. E ora che il romanzo è stampato in migliaia di copie e distribuito per tutta Italia devo fare i conti col fatto che il mio io nudo è stato messo in vetrina e non posso certo inseguirlo per fargli mettere le mutande. Me ne farò una ragione, anche perché appunto il pubblico potenziale di un romanzo è più grande, imprevedibile e variegato rispetto al pubblico dell’arte contemporanea.
Ho sempre amato raccontare storie, ma come dicevo, era un’abitudine legata anche al linguaggio cinematografico, che racconta per immagini. Ho sempre immaginato le mie storie sul grande schermo, prima ancora che sulla pagina. E si sente quando si legge questo romanzo. Le scene si seguono con l’occhio della mente come se fosse un film, con il ritmo incalzante proprio della commedia. Ogni capitolo è una scena madre, senza che sia mai data tregua né al protagonista, Martino, né al lettore. Nessun riposo fino alla fine. E poi il cinema è anche il codice attraverso il quale Martino reinterpreta il suo vissuto. Facendo ricorso a scene di film cerca di dare un senso a ciò che gli succede, ai vortici in cui precipita. Cerca di sentirsi meno solo. Cinema ergo sum.
Ho già iniziato a scrivere il prossimo romanzo, non vedevo l’ora di potermi dedicare a una storia nuova, dopo quest’ultimo periodo passato ad affinare sempre le stesse pagine. Verso la fine diventa un processo molto ripetitivo. Mentre l’inizio di un romanzo è come l’inizio di una relazione. Tutto è nuovo, eccitante, possibile. Non hai la minima idea di dove andrai a cacciarti questa volta.
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come tutti i giovani scrittori.. anche lui poverino avrà problemi di distribuzione! ma è anche artista visivo? e attore? quando?