USA batte Italia 3 a 0. Una partita giocata in queste settimane nelle sale cinematografiche italiane, tra due pellicole di indubbia qualità: Viva la libertà, promettente prova di Roberto Andò, e Django Unchained, strepitosa saga di Quentin Tarantino. Argomenti e propositi diversi, li analizziamo entrambi per capire cosa manca al cinema italiano per sfornare i capolavori che negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta facevano sognare il mondo intero. E cosa invece possiede il grande Tarantino per appassionare affrontando qualunque argomento, perfino il western.
Cominciamo da Viva la Libertà, per premettere subito un punto: da qualche anno i nostri migliori registi costruiscono i loro deludenti film su un unico attore: abbiamo visto Michel Piccoli in Habemus Papam di Moretti, Sean Penn in This must be the place di Sorrentino, Geoffrey Rush nella Migliore Offerta di Tornatore e ora Toni Servillo in Viva la libertà. Senza nulla togliere ai nostri divi, si mostra una forza che in realtà nasconde una grande debolezza: le storie cucite intorno alle capacità istrioniche del protagonista rinunciano ad approfondire dialoghi, trama e sceneggiatura, sempre più carenti e approssimative nelle blasonate pellicole tricolori. Ennesima scorciatoia per ottenere buoni (talvolta ottimi) risultati al botteghino nazionale, che preclude però ogni posizionamento possibile in festival e competizioni straniere.
Un film è una costruzione complessa, che merita un’attenzione ben più precisa di close up e inquadrature fisse sui volti della star di turno. Ma veniamo ora a Viva la Libertà, che ha il principale pregio di anticipare lo stato comatoso della sinistra italiana poche settimane prima di un’elezione che l’ha sbattuta in faccia al mondo intero, così come lo sgangherato Habemus Papam di Moretti aveva predetto un avvenimento del tutto imprevedibile, come le dimissioni di Benedetto XVI. Intuizioni geniali per entrambi, ma non basta un’intuizione per fare un capolavoro. Così l’opera di Andò rivela uno strabismo di fondo: se il punto forte della trama racconta in maniera attenta e puntuale la crisi di Enrico Oliveri,un leader politico incapace di cogliere la complessità del suo tempo, aiutata dall’eccellente Valerio Mastrandrea nei panni del portaborse, la parte privata dello stesso, che giustifica lo sdoppiamento con Giovanni Ernani, il gemello filosofo disturbato ma visionario, fa acqua da tutte le parti, rivelando parentele con gli sceneggiati televisivi piuttosto che col cinema d’autore. E poi, perché la cultura visiva dei nostri migliori registi è rimasta ferma agli anni Settanta, rivelando una sconcertante ignoranza del contemporaneo? Al pubblico italiano piace così? Un clamoroso alibi che nasconde, ancora una volta, l’assenza di aggiornamento sull’oggi, per rifugiarsi in un passato ormai totalmente anacronistico e, purtroppo, provinciale.
Così, dagli appartamenti altoborghesi e stantii della sinistra italiana raccontati da Andò (perfino un trasferimento a Parigi non modifica la sensazione di modestia visiva del regista) alle piantagioni di cotone dell’America ottocentesca di Tarantino il salto è abissale. Qui siamo in zona capolavoro: un ritmo serrato, dialoghi sorprendenti, un cast d’eccezione dove spiccano Jamie Foxx e Christoph Waltz, rispettivamente nei panni dello schiavo nero Django e del cacciatore di taglie King Schultz. Liberamente ispirato al film Django (1966) del regista italiano Sergio Corbucci, interpretato da Franco Nero (presente anche nel film di Tarantino con un cameo), Tarantino ha interpretato una trama non particolarmente emozionante in un rodeo contemporaneo dove dialoghi, sceneggiature, arredi e costumi rivelano una sensibilità assai sviluppata per la cultura visiva contemporanea più avanzata, dall’arte alla musica, in un mix spettacolare che non perde un colpo.
E non parliamo solo di arte contemporanea: come nei capolavori di Fellini, Pasolini o Visconti, Tarantino cita anche l’arte antica, quando fa indossare a Django una giacca blu elettrico che riprende quella presente nel dipinto The blue boy di Thomas Gainsborough.
Allora, signori registi italiani, cosa aspettiamo ad aggiornarci? A smettere di considerare la nostra patetica televisione l’unica fonte di ispirazione? Com’è possibile che un regista come Tarantino citi il cinema italiano degli anni Sessanta ignorando del tutto la produzione attuale? Uscite dal vostro provincialismo e alzate lo sguardo fuori, dove c’è un mondo pronto a tornare ad amare il cinema tricolore, a patto che non rinunci mai, ma proprio mai, ad aspirare alla massima qualità, senza tralasciare nessun dettaglio.
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Articolo da condividere in toto. Bisognerebbe estendere l'invito anche agli scrittori, musicisti e artisti visivi.
articolo condivisibile in toto.
grazie Ludovico