Da 25 anni la Vetrina della Giovane Danza d’Autore del Network Anticorpi XL, che si svolge a Ravenna, è un buon termometro dei trend del momento, specchio bene o male, di quello che si “muove” nell’ambito della giovane danza contemporanea in Italia. Una vetrina, appunto, di autori in erba, in cammino, o già a buon punto – selezionati attraverso una call nazionale -, che qui, in qualità di coreografi, mostrano quanto finora sviluppato o in fase di maturazione. Ce ne occupiamo ogni anno, rendendo conto di quanto visto nei tre giorni ravennati, riferendo, a nostro sindacabile giudizio – e nell’impossibilità di parlare di tutti – di quei lavori che ci hanno colpito particolarmente per significative idee autoriali, per il potenziale, l’estro, la necessità creativa, o per la mancanza di tutto ciò, senza tralasciare, come criterio di valutazione, anche quella ricerca seria sul movimento e di un idioma personale. Roba non da poco per chi s’avventura nella scrittura coreografica, che però, bisogna sempre ricordarlo ai danzatori, non è uno sbocco automatico per chiunque.
Una salutare ventata d’aria fresca, nell’asfittico panorama concettuale che troppo spesso caratterizza tanti giovani, e non solo, coreografi – e affligge noi spettatori -, è stato Vittorio Pagani con A solo in the spotlights, un vero stand-up comedian che con la danza – dal solido linguaggio classico e contemporaneo – e altri codici della scena, sa parlare e comunicare. Tutti quegli elementi valutativi elencati sopra li abbiamo ritrovati in pieno nel giovanissimo danzatore e coreografo varesino – con esperienze al Ballet Junior de Genève e a Londra, ed oggi nel collettivo LARVAE – al suo secondo lavoro dopo Around 5:65 del 2021.
Pagani mette in scena, con tutti i mezzi espressivi, attoriali, performativi e canori che possiede e padroneggia già con maturità, un divertente, sarcastico, tracimante assolo sul mondo dello spettacolo e i suoi rituali: quelli dell’iter difficoltoso del performer soggetto a prove di selezione per essere guardato e approvato. Dentro uno spot che lo illumina, e con il supporto di parole e didascalie proiettate su uno schermo (suo quasi tutto il testo dialogante), sollecitato da una voce fuori campo che impartisce ordini e istruzioni, il ballerino si adegua, esegue, crea, si trasforma, mascherandosi anche con un passamontagna e pantaloncini fucsia per apparire come gli altri lo vogliono. Il suo corpo si fa via via amplificatore della retorica e dei meccanismi che “regolano” le audizioni; si plasma sulle note di una canzone, sul suono della voce alterata, sulle musiche che gli impongono di danzare una sequenza di passi, di modificarla in base ai gusti del direttore, ed eseguirla su una sonorità techno, classica, urban, o con un mood robotico, provocante, classico, ripetutamente e più veloce, fino a togliersi la maschera, modificarla, e finale da non svelare.
L’acutezza creativa di Pagani, che attinge a elementi esperienziali, e la qualità dell’esecuzione giocata su registri ironici, e non solo, includendo un immaginario cinematografico e letterario (Patti Smith e Allen Ginsberg), conquista in toto. E quei 35 minuti dell’assolo si vorrebbe continuassero, facendo eco alla frase di una sequenza in cui si chiede al performer di “…danzare ancora. E ancora, e ancora”.
«Quando in una coppia i due partner sono sempre d’accordo su tutto, uno dei due sta pensando per entrambi». Da questa frase di Sigmund Freud trae ispirazione il lavoro del coreografo Roberto Tedesco Simbiosi, titolo esplicativo volto a indagare la relazione tra due individui colti nella costante tensione ad essere una sola persona. Nel processo evolutivo che la danza innesca tra le due brave danzatrici, Lalla Lovino e Melissa Bortolotti, Tedesco compie, con intelligente perizia coreografica, stratificata e multiforme, un attraversamento esistenziale e temporale che parte dall’età infantile del rapporto genitore/bambino, e arriva a quella adulta e alla vecchiaia, di due persone mosse dall’amore.
La ricerca simbiotica, la complementarità, e la stretta interdipendenza che anima la coppia, crea un sottile gioco di potere e sottomissione, di scambio di ruoli, di attrazione e respingimento, di legame e di abbandono. Un tema umano leggibile nel bel vocabolario gestuale di Tedesco, espresso con una ricchezza di movimenti che abitano tutto lo spazio, con posture dei corpi, ondulazioni, passi claudicanti o scattosi, che rivelano la forza, le fragilità, le incertezze, la vulnerabilità che nutrono le storie delle due anime. Concepito per spazi raccolti e più intimi, Simbiosi, visto al Teatro Rasi regge anche la prova di una più vasta platea e distanza.
Quello di Pierandrea Rosato – danzatore e coreografo veneziano, con formazione ad Essen e nella compagnia Folkwang Tanzstudio – nel breve assolo Infieri, è un corpo in ascolto, di sé, della voce che lo abita, del silenzio che lo muove e sollecita la presenza dell’altro. Nell’ampiezza e nella minuzia dei gesti, nella fluidità di tutti gli arti e nell’espressività disegnata dentro lo spazio vuoto, il suo è un corpo evocativo che una struggente canzone, infine, risveglia, rivelandone la poetica personalità.
Albatros di Pablo Ezequiel Rizzo – interprete insieme a Giuseppe Zagaria e Alessandra Cozzi – fa leva sulla seminudità dei corpi immersi nel chiaroscuro della scena, a tratti illuminata da luci stroboscopiche, per dar vita a un immaginario onirico di forme ibride e mutanti che però ricordano troppo gli originali nudi poetici di Luna Cenere, e la plasticità zampettante e animalesca della compagnia Ivona.
Aggirandosi, con la sua cinetica danza, davanti ad una piccola bacinella d’acqua, inizia bene Camilla Montesi nel suo pezzo Caronte, inteso come decostruzione dell’immaginario dell’inferno come luogo ultraterreno da traghettare. Ma quando dall’oggetto a terra estrae un casco per avventurarsi in un viaggio silenzioso da guardiano, sembra perdersi senza più ritrovarsi.
Chiara Ameglio, nel suo lavoro performativo Lingua, si espone allo sguardo e al contatto del pubblico con una vicinanza che chiede una partecipazione attiva. Dopo aver segnato il suo corpo in più parti con un pennarello, lo offre come foglio, scultura, ventre gravido, caverna, tela da mappare, aggirandosi tra gli spettatori. Quelle linee aggiunte che ciascuno avrà impresso, lei le elaborerà nella vibrazione della danza, quale atto rituale, espressione di identità singole e collettive. Performance da calibrare ancora e sviluppare, dando più spazio alle ripercussioni di quelle tracce sul corpo.
Nell’intrigante Come sopravvivere in caso di danni permanenti, Francesca Santamaria utilizza il proprio corpo come una macchina da riparare dopo un infortunio, sottoponendolo ad una serie di azioni volte a indagare il tema del dolore fisico ed emotivo post-trauma in una danzatrice. Legandosi varie parti del corpo con dei rotoli di scotch color argento, i suoi movimenti di danza, sulla sonorità ribaltata della musica de La morte del cigno, vengono sempre più bloccati mentre lei continua a muoversi.
Alex di Roberta Maimone, anche interprete insieme a Alice De Maio, è uno spassoso duetto che vuole rappresentare un viaggio psicologico trasformativo nell’incontro specchiante con l’altro. Brave le giovanissime interpreti, ma la coreografia non va oltre il didascalico e la mimica da cartoon.
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