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Akram Khan e l’inganno del diavolo, al Teatro Valli di Reggio Emilia
Danza
«È un mondo senza tempo che ti porta alla verità». Così Akram Khan concepisce la mitologia. Appassionato delle grandi epopee come quella del Mahabharata, esplorata in Gnosis o in Until the Lions (spettacolo del 2017), il ballerino e coreografo anglo-bengalese, classe 1974, continua a rielaborare temi mitici complessi quali allegorie della condizione umana. L’ultima produzione Outwitting the Devil (Ingannare il diavolo, o Prendersi gioco del diavolo) che ha debuttato, nel 2019, a Stoccarda e al festival d’Avignone (in prima italiana al Teatro Municipale Valli nell’ambito della Stagione di Danza della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia), s’ispira a un antico testo dell’epopea mesopotamica, quella del sovrano Gilgamesh – e del suo compagno Enkidu, un selvaggio civilizzato -, punito dagli dei per aver distrutto una preziosa foresta di cedri e aver ucciso il suo guardiano.
Nel titolo, il Diavolo che Khan mette in scena – complice la fedele drammaturga Ruth Little -, è puramente umano, una creatura capace solo di distruggere tutto e tutti quelli che lo circondano. Evoca l’avidità, la disuguaglianza, il maltrattamento della natura: monito che ci riporta al nostro presente e al futuro minacciato dalla devastazione ambientale da parte dell’uomo. Da un frammento di tavolette dell’antico testo, di recente ritrovamento, Khan ricava un racconto per sei danzatori – quattro uomini e due donne – focalizzando lo sguardo sull’arroganza e il dispotismo del giovane re in contrasto con l’uomo anziano giunto a saggezza e con i rimorsi per le sue azioni passate, che infine si pente e accetta la morte.
La scena si apre col rumore tellurico di un crollo, cui segue quello d’acqua scrosciante, mentre sotto due fasci di luce, rannicchiati agli opposti della scena, emergono dall’oscurità i due uomini che sono lo stesso Gilgamesh nelle due età della vita. Il peso del tempo e delle azioni è in quella lastra di pietra che il giovane posa sulle spalle ingobbite del vecchio, identica scena che chiuderà il ciclo, ma con i ruoli invertiti. Da quel momento il passato prende il sopravvento come in un sogno, con gli eventi rievocati anche da frammenti di una voce fuori campo che recita in francese.
Brandelli di storia sono anche la fila di mattoni in proscenio e dei cumuli di rovine sul fondo (scenografia di Tom Scutt), con un tavolo che è il luogo dove si consuma l’offerta di se stessi, la rinascita e la morte. A sequenze di lotte violente e avvinghiamenti sotto luci che scolpiscono i corpi braccati e trascinati a forza, poi liberati e in fuga; di tendini e posture inarcate, di torsioni e scatti muscolari; seguono movimenti animaleschi a quattro zampe o su una sola, con staffilate delle braccia, e di mani e piedi roteanti che accompagnano le espressioni facciali dalle bocche spalancate e dalle lingue sibilanti. Di prorompente fisicità, sempre innervata di tensione e di morbidezza, la danza dei magnifici interpreti – di età e stili di danza diverse – coniuga l’antica tradizione indiana Kathak con il linguaggio contemporaneo astratto, inclusi cenni di krumping, creando vortici di magnetica bellezza.
Il corpo nervoso e avvizzito dell’anziano dai lunghi capelli bianchi si specchia in quello muscoloso ed energico del giovane; entrambi in quello esile, scattante e sinuoso del ragazzo selvaggio; e tutti si confrontano con le incursioni di due figure femminili, tra cui la dea Ishtar vestita d’oro: lo spirito della natura che sopravvive nonostante le inique devastazioni dell’uomo.
Decisiva, se non predominante per la drammaturgia dello spettacolo, è la colonna sonora composta dall’italiano Vincenzo Lamagna. La musica del fedele collaboratore di Khan, è di sconvolgente bellezza per la capacità visionaria di creare un paesaggio sonoro multiplo: mixa rumori primordiali di natura, suoni tellurici che sembrano provenire dalle profondità della terra, clangori industriali, improvvisi silenzi, note melodiose, tonfi minacciosi e ribollii elettronici, con shock fulminei di volume che fendono l’aria. Pur mancando un chiaro filo narrativo che districhi la matassa – se non leggendo prima, sinteticamente, la storia di Gilgamesh –, Outwitting the Devil cattura l’attenzione poco alla volta di là della storia, per come restituisce il perenne mutamento dell’uomo.