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Al DAP Festival di Pietrasanta, tra evocazioni classiche e suggestioni queer
Danza
Pietrasanta, con la sua grande piazza Duomo e le vie costellate di sculture monumentali, con lo splendido Chiostro di Sant’Agostino circondato da eleganti colonne in marmo e con le numerose gallerie d’arte, è diventata da sette edizioni città-palcoscenico, spazio ideale del DAP Festival diretto da Adria Ferrali, manifestazione sempre più in crescita nella qualità delle proposte e con nomi italiani e internazionali della danza contemporanea.
Tra questi che hanno animato i 13 giorni del festival spiccano Mavin Khoo, storico collaboratore della Akram Khan Company; i coreografi taiwanesi PeiJu Chien-Pott e Chien-Ming Chang; la MM Contemporary Dance Company di Michele Merola; Thomas Johansen; Spellbound Contemporary Ballet; la Compagnia Zappalà Danza di Roberto Zappalà; la svizzera Pitt Company; Equilibrio Dinamico di Roberta Ferrara; l’ungherese Inversedance di Zoltàn Fodor.Quattro le coreografie, dalle differenti atmosfere e forme, viste nella serata del “Contemporary Dance Gala”, andato in scena sul palcoscenico del bellissimo Chiostro di Sant’Agostino, tutte creazioni originali di coreografi italiani e israeliani e con interpreti provenienti da diversi teatri e compagnie internazionali.
Come Marion Barbeau (nota anche per la sua apparizione nel film En corps di Cédric Klapisch che le è valso la nomination ai César come miglior attrice emergente),e Antonin Monie, primi ballerini dell’Opéra di Parigi, nelle coreografie di Shahar Binyamini presentate da MART Foundation NYC. Il loro duetto Difficile da dire, esplora la natura della crescita, il processo con cui inizia un cambiamento. I due corpi, vulnerabili, dai costumi striati color carne, avanzano individualmente con delle grandi ciotole alle quali abbeverarsi. Da uno stato primordiale di posture selvagge, striscianti e claudicanti, trascolorano via via ad altre più eufoniche, all’incontro di scoperta dell’altro in una danza di riavvicinamento, annusandosi, riconoscendosi negli sguardi, nell’abbraccio, fino ad una simbiosi.
And if this is it, del francese Julian Nicosia (coreografo freelance, con esperienza maturata nella Dresden Frankfurt Dance Company di Jacopo Godani), danzato da Ève-Marie Dalcourt e Toon Lobach, su musica di Happiness by Jonsi, riporta lo spirito spensierato dell’infanzia attraverso una coreografia ariosa, che i due interpreti rendono con movimenti ampi, in un flusso continuo che sembra non finire.
Nel brano firmato Amata immortale, Tamara Fragale avanzando attorno alla scultura dell’artista Antonio Signorini, e infine ritornandovi, si muove con una danza dapprima leggera poi sempre più impetuosa e fluente – complici i suoi lunghi capelli -, infine rasserenata. È un astratto dialogo amoroso nel quale la danzatrice incarna la donna ideale, la musa di Beethoven, ispirata dalla famosa lettera d’amore “Amato immortale” – di cui udiamo da una voce fuori campo alcune frasi -, scoperta in un cassetto segreto del compositore nell’appartamento di Vienna, e indirizzata a una donna tutt’oggi sconosciuta.
Emanuela Tagliavia firma per la coppia scaligera Alice Mariani e Mattia Semperboni Deux à tiroir ispirato alla scultura di Salvador Dalì Femme à tiroir, raffigurante un cassetto segreto e misterioso, riportato visivamente nel costume della danzatrice. È lo spazio che nasconde o protegge una verità, un pensiero, un ricordo o un sentimento. Sulla musica di Giampaolo Testoni e Richard Wagner con estratti da L’oro del Reno e La Valchiria, la coreografa milanese tesse per i due interpreti una serie di assoli e duetti che esplorano diversi stati d’animo sottolineati dallo sfumare di luci dai colori accesi. Una partitura coreografica intima e pulsante, densa di gesti netti nel continuo scoprirsi, unirsi e distanziarsi.
Serata a parte per il danzatore e coreografo di origine malesiana di stanza a Londra, Mavin Khoo, artista queer, il cui segno attinge, per formazione, alla danza classica indiana Bharatanāṭyam e a quella contemporanea occidentale. Il mix culturale e stilistico è ben presente nella coreografia Man (or) God firmata da Khan insieme a C. Joy Alpuerto Ritter,per Khoo in scena con il danzatore spagnolo Hector Ferrer. Intervallata dalle immagini video (di Maxime Dos) di mani e volto proiettate su due schermi in alto, da ondate di fumi, da suoni pixelati, da cambi di luci rosse e blu, poi stroboscopiche e fasci luminosi, la danza iniziale e solitaria di Khoo si apre, tra attrazioni e respingimenti, all’incontro con l’altro dando vita a un duetto d’amore potente per la forza espressiva dei movimenti, che riflette la storia intima di Khoo, la sua trasformazione e l’anelito da una dimensione fisica ad una più spirituale, cercando una connessione col divino secondo il concetto filosofico indiano di Dio come amante.