E dire che al debutto, nel 2004, lo spettacolo fu accolto da contestazioni violente, per via del fatto che parte del pubblico protestava per l’assenza di danza. Già, perché in Umwelt non c’è, se intesa come concatenazione armoniosa di gesti e movimenti. Qui c’è un’inarrestabile, ossessiva, ipnotica passerella di uomini e donne – una danza quindi del corpo – che appaiono e scompaiono da dietro dei flessibili pannelli specchianti disposti su due file. Sono in balìa di un forte vento (presagio di un’apocalisse?) dal rumore frastornante e opprimente. Vento che si placherà solo per qualche attimo, per poi riprendere minaccioso, sospingendoli e ostacolandoli nel frenetico andirivieni.
Qui c’è lo zampino di Samuel Beckett il cui teatro, che racconta con poesia e ironia l’assurdo della condizione umana, fragile e tragica, è sempre stato per la coreografa Maguy Marin un punto di riferimento (un capolavoro rimane ancora oggi May B. del 1981). In questo congegno performativo a orologeria dal titolo Umwelt (Ambiente, in tedesco), quella che lei mette in scena col suo personalissimo “teatrodanza”, è un’umanità in eterno movimento, in cerca di contatto o che rifugge da esso, catturata in veloci azioni ripetitive e in gesti quotidiani privi di senso, ma che forse un senso ce l’hanno. Lo troverà, oppure no, lo spettatore, seguendo la propria sensibilità, suscitato da qualcuna, o da tutte le interminabili azioni che scorrono per più di un’ora.
I nove interpreti, entrando e uscendo da dietro i pannelli quasi al ritmo di un pendolo, si muovono l’uno accanto all’altro simultaneamente, camminano, si sfiorano, si rincorrono, indossano gli stessi abiti, si diversificano, eseguono gli stessi gesti duplicandosi o moltiplicandosi. C’è chi gusta una mela, chi mangia carote tenendo in testa lunghe orecchie da coniglio, e chi rosicchia delle ossa; chi indossa una corona di cartone e chi delle corna di cervo; chi compare con le manette ai polsi e chi vaga con una torcia; chi porta sulle spalle dei sacchi o dei quarti di bue da macellare, e chi tiene dei mitra in mano; chi ha ali di farfalla e chi una parrucca. Una coppia si bacia e un’altra litiga; una donna si lancia al collo di un uomo nel tentativo di farsi sorreggere. Ogni tanto c’è chi corre smarrito e chi insegue invano qualcuno. E si potrebbe continuare a descrivere all’infinito aggiungendo che nelle stesse azioni ripetute s’inseriscono cambi di costumi e l’aggiunta di accessori.
A interrompere però questo flusso è l’improvviso apparire, a più riprese, di una sola figura – in alcuni momenti sono due o tre –, la quale, immobile, ci guarda severa per qualche istante, complice le luci rivolte appena in platea. Ci interpella, ci sfida, forse chiede aiuto, o forse ci giudica. Nel frattempo sul proscenio – dove sono disposte a terra tre chitarre elettriche dal suono distorto, le cui corde sono grattate dallo scorrere di un lungo filo mosso da due bobine agli opposti della scena – si accumulano dei rifiuti, oggetti che i performer via via buttano fuori dal loro spazio: una discarica, presagio di un disastro ecologico che fingono di non vedere intrappolati come sono nel meccanismo alienante del loro tran tran quotidiano? Alienazione, allegoria, parabola di una condizione umana chiusa in se stessa, dicevamo, che Umwalt rappresenta ancora oggi con forza dirompente reggendo il trascorrere del tempo (una seconda ripresa dello spettacolo è avvenuta nel 2013).
E ben ha fatto Lanfranco Cis, direttore artistico del Festival Oriente Occidente, a proporlo, per la prima volta in Italia, per l’appuntamento di Rovereto, in linea con una sua progettualità che include il recupero di brani cult oggi ancora vitali.
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