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Corpi come cellule macroscopiche, in cerca di patria
Danza
«La patria non è un luogo fisico ma un bisogno che si sposta». Attinge a questa citazione di Richard Sennett tratta da Lo straniero, lo spettacolo della Compagnia Zappalà Danza. In scena a Trento e a Rovereto. È, forse, un richiamo pittorico ad Adamo cacciato dal Paradiso terrestre, l’apparizione iniziale di un uomo ignudo che, coprendo le sue “vergogne”, avanza timidamente dal buio dentro un quadrato di luce da dove, guardandoci, e davanti a un microfono, balbetta le parole dell’inno francese «Allons enfants de la Patrie…».
Forse è un esule, uno straniero, un rifugiato, o altro ancora, col desiderio di una terra dove approdare, nella libertà e in fratellanza. Di scatto volge verso altre figure che vagano sul fondo, nella penombra di un paesaggio nebuloso, catturati da un grande occhio di bue. Li illumina ruotando anche verso il pubblico, mentre esplorano lo spazio intorno. I sette danzatori fluttuanti nel grande rettangolo bianco, rappresentano, forse, schegge di una comunità alla deriva che pian piano, nel progredire dello spettacolo, s’incontrano, si scoprono, si uniscono, a voler ricomporre un’unica appartenenza in nome della parola “umanità”.
Perché, come cantava Gaber, «L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé». Tutto questo si evince non da una narrazione esplicita, ma da quella danza allo stato puro che caratterizza la cifra del coreografo catanese Roberto Zappalà. Sono solo suggestioni le mie, percezioni suscitate da Patria, sottotitolo Un bisogno che si sposta, spettacolo che Zappalà ha ribattezzato a distanza di qualche anno dal debutto, nel 2013, all’epoca col titolo di “Anticorpi” (in scena al Teatro SanbàPolis di Trento per la rassegna “inDanza.22” curata da Renato Zanella). Nasceva dal progetto a tappe “Sud-virus, il piacere di sentirsi terroni”, focalizzando in quella parola il contagio umano, benefico e positivo, che può generarsi dai comportamenti di un meridione del mondo fuori dai luoghi comuni.
L’osservazione al microscopio dei virus comportamentali si sviluppa attraverso la danza di quei corpi dinamici, cellule macroscopiche che si muovono sul palcoscenico/vetrino come reazione e controreazione di anticorpi innescati dal bacillo. Ed è un caos con metodo quello dei corpi di Zappalà, sprigionato con energica gestualità da mani sventolanti o che indicano una rotta, da braccia ricurve o scagliate in più direzioni, da gambe molleggiate o in ginocchio, saltellanti con scatti improvvisi in aria. Inizialmente ansimanti, solitari nel vagare, i danzatori formano insiemi con, a tratti, movimenti all’unisono; si dissociano e riassociano; si fermano di colpo, riprendono le corse e le fughe. Setacciano, con i loro corpi cinetici o appena bloccati, lo spazio vuoto; agitano l’aria disegnando traiettorie immaginifiche. Sono sciabolate di braccia, battiti sul petto, allungamenti e rotolamenti a terra, scatti e cadute come cellule impazzite che provano a unirsi, a trovare legami e coesione. E a formare una comunità umana, un’unica “patria”.
Collante di questa moltitudine d’immagini e di concetti, è un elettronico tessuto sonoro percussivo in perenne sospensione, una contaminazione musicale con inserti fulminei di Bach, Paganini, Herbert, Beethoven; di uno scioglilingua dialettale – parole che diventano suoni – ripetuto a turno dai danzatori e dalla voce fuoricampo dell’attore Vincenzo Pirrotta; e infine di Battiato, con la canzone Povera patria. Seguendo un personale percorso drammaturgico, lo sguardo ha creato una propria versione di questa Patria in forma astratta che Zappalà ha modellato sui suoi danzatori: è il virus come processo di trasformazione del cuore, e della mente, che può aiutare ad assorbire le cellule nocive e distruttive, e generare il sudvirus della condivisione, il senso dell’appartenenza, per passare dall’individualità alla comunità.