Con Emanuel Gat, bisogna abbandonarsi al solo piacere della danza, al continuo rigenerarsi del movimento, al suo esplodere, implodere, ritornare a stupirci, smuoverci stando seduti, seguendo quel flusso dettato dalla musica del rapper americano Kanye West, inframezzata dalle note del secondo movimento della Sonata per pianoforte n.32 di Beethoven. Freedom Sonata della compagnia Emanuel Gat Dance (al Festival Torinodanza, in prima nazionale, con grande successo) è un altro potente affresco del connubio “danza e musica” che il coreografo israeliano – ma da anni residente in Francia, ora a Marsiglia, con la sua compagnia -, da sempre connette nelle sue creazioni: un rapporto indissolubile che costituisce la sua cifra creativa. Matrice che affonda l’ispirazione in molti generi musicali, spaziando dal classico al pop, al jazz, alla lirica, senza distinzione.
Sulle incursioni stilistiche di Kanye West – dell’album del 2016 The Life Of Pablo denso di brani che oltrepassano i recinti dell’hip hop con sonorità elettroniche, rock, e classicheggianti, e con testi provocatori -, Gat costruisce, con la sua personale scrittura coreografica, un freestyle di danza come avviene sulle strade. Si entra ed esce dallo spazio, a turno, in coppia, o in gruppo, a piedi nudi o calzando scarpe colorate; si gioca, si creano complicità, sinergie, variazioni, solenni posture, poetici tableaux vivant e sequenze di fluida energia e virtuosismi.
Nei continui e improvvisi cambi di atmosfera dettata dal crossover di generi musicali e song di Kanye West, c’è, nel turbinio dei corpi, chi avanza seguìto dal gruppo e lo guida, chi se ne stacca e segue il suo istinto, chi prende in braccia l’altro in segno di aiuto, chi lo carica sulle spalle, chi indica una direzione, chi mostra vicinanza, solidarietà, altri, invece, rabbia, sfrontatezza, scontrosità, nel complessivo disegno di sequenze festose, malinconiche, nervose. Tutto in nome di una modalità che vuole esplorare la ricerca di equilibrio tra individuo e comunità, tra forza creativa e forza distruttiva, finalizzate all’organizzazione armonica delle relazioni sociali, ad alternative di aggregazioni dove prevalga il senso della collettività.
L’approccio in libertà del movimento degli undici danzatori, genera intrecci complessi, fluidi, connessioni continue, corse frenetiche, rotolamenti e sviluppi improvvisi a partire dall’assolo iniziale che da fermo prende lentamente vita, e dal progressivo séguito sempre più corale, muovendosi tutti e interagendo sul progressivo stendere e incollare a terra diverse strisce di moquette bianca srotolate a vista e via via unite durante lo spettacolo, fino a formare un vasto e unico tappeto di danza, spazio luminoso della convivenza umana.
Nella grande tavolozza del palcoscenico dove i corpi dei danzatori sono come pennelli che dipingono prima sul nero, dopo sul bianco, trionfa il candore dei costumi – camicioni, t-shirt, slip, pants -, poi tutti neri, sulle luci a scena piena, di chiaroscuri, di quadrati e recinti circoscritti, di fari e di controluce. E trionfa la compagnia, il suo coreografo, e l’apertura del festival torinese.
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