Il trittico Dreamers, la nuova produzione di Aterballetto che si aggiunge alla stagione in corso dopo il debutto al Festival Oriente Occidente, mette in campo l’ecletticità e l’alto livello tecnico del gruppo reggiano da tempo avviato a nuove aperture e titoli di grandi autori. Come l’israeliano Ohad Naharin che entra per la seconda volta nel repertorio della compagnia, ora con Secus brano già eseguito da vari ensemble nel mondo. Spazio ancora a Philippe Kratz, danzatore e coreografo sempre più sostenuto dalla direzione di Aterballetto, stavolta con una creazione più corale; e, a completamento del trittico, una commissione a Rihoko Sato, musa e interprete prediletta di Saburo Teshigawara, alla sua prima creazione coreografica per un gruppo.
Nuvola e materia, come immagine; astrazione e concretezza, come antonimia. Su questo binomio e figurazione muove la struttura coreografica di Philippe Kratz Cloud|materia, suggestionato dal pensiero di Anni Albers, l’influente textile-designer del secolo scorso legata alla Bauhaus che reinventò la tradizionale tessitura a mano in chiave moderna. Il razionalismo dell’ordito e della trama concepiti dall’artista tedesca cresciuta tra architettura, grafica e ingegneria nella rivoluzionaria fucina delle arti fondata da Walter Gropius, li ritroviamo già nei costumi disegnati da Costanza Maramotti, e soprattutto nei movimenti astratti dei quindici danzatori di Aterballetto.
Movimenti seguendo il disegno di Anni Albers
Movimenti che riflettono uno dei pensieri con cui Albersdescriveva, negli Anni ‘40, i suoi intenti artistici di sperimentare la materia: “Deve avere una sorta di potenza nel disegno, qualcosa che spinga a continuare a guardare ancora, ancora e ancora”. La potenza di segno e uno sguardo senza soluzione di continuità, sono nel flusso dei corpi pulsanti che occupano tutta la scena smembrandosi e predisponendosi in file laterali, poi frontali, dalle quali a turno, osservandosi e sfumando gli uni dagli altri, emergono assoli, duetti, terzetti, quintetti, bagnati da una luce dorata (del light designer Carlo Cerri) che focalizza e allarga le sequenze. Simile ad una tessitura di gesti, il dinamismo corale e dei singoli si allunga con cadute e scivolate a terra, inarcamenti, camminamenti felpati e ampie falcate, seguendo il ritmo meccanico della partitura elettronica di Bordeline Order (che però non ci sembra supportare del tutto il disegno coreografico). Kratz dipana con padronanza una ritualità tesa ad una celebrazione di connessione tra gli umani, rivelando un segno d’autore sempre più nitido.
Tutto è imprevedibile in Secus nel suo comporsi e deflagrare da un gesto all’altro, spezzando le linearità o le posture dei corpi. Ogni sequenza che si genera è diversa da quella successiva, e da quella precedente, con improvvisi blackout dei movimenti e della musica. Questa è un mix di generi, dal pop alla dance all’elettronica, a gospel e canzoni indiane. Tutto è, contemporaneamente, veloce, dinamico, acrobatico, ironico, sensuale, sgraziato e armonioso. I danzatori scalpitano, agitano fianchi e torsi, saltano, irrompono con smorfie. Si fermano, ci guardano, e riprendono. Sono un branco brulicante di vita, non trattenuta – movimenti ancora non del tutto liberi nei sedici danzatori di Aterballetto, e non pienamente sciolti in quel movimento istintivo che sembra insorgere dalle viscere, tipico del linguaggio di Naharin e della sua Batsheva Dance Company.
Le atmosfere di Secus e Traces
Secus ci immerge in un caos continuamente ricomposto: come il formarsi, nel mezzo del gruppo, di un duetto maschile molleggiato e acrobatico, tenero e virile; o il comporsi di file laterali e centrali con passerelle ordinate, improvvisamente rotte da folgoranti assoli di tutti gli interpreti, alcuni dei quali avanzano mostrando pudicamente un lato della pancia, la schiena, o i glutei. La creatività debordante di Naharin è un vero godimento, una danza di volumi e colori anche nei vestiti casual. Non c’è narrazione, né messaggio. Se non, forse, nel finale della passerella, nel gesto delle mani prima sui volti forse di paura, poi di fiducia, nelle braccia sempre più aperte in segno di accoglienza mentre la parola “welcome” anticipa la canzone dei Beach Boys.
Traces, per Rihoko Sato, sono quelle che il tempo lascia nei cuori e nei corpi. Tracce di ricordi, storie, relazioni. La breve coreografia s’apre su delle sedie in penombra sparse a terra, con accanto due figure appoggiate e un’altra di cui sentiamo il respiro nell’aria. Nella breve creazione scorre un moto continuo e circolare generato da corse fuggevoli, da attraversamenti nello spazio tra apparizioni e sparizioni. Un’atmosfera rarefatta, rischiarata dalla morbidezza delle luci della stessa coreografa (suoi anche gli impalpabili costumi), circonda i corpi dei sei danzatori librarsi sulla struggente Passacaglia di Biber. Tra folate di braccia sempre sollevate, molleggiamenti e svolazzi avanti, indietro e al centro, la danza – ripetitiva nella sua ripetizione ondivaga – alimenta il fluire di presenze evanescenti che, nel momento in cui sembrerebbero prendere consistenza, sbiadiscono senza lasciare tracce. Colei che ne ha evocati i segni, in ultimo, rimasta sola, sparisce nel buio dopo aver lanciato un ultimo sguardo indietro e lasciato nell’aria il suono dello scalpitio di un cavallo.