«Lapis Lazuli evidenzia la lotta interiore dell’uomo tra gli istinti primitivi e le facoltà superiori dell’intelletto e dello spirito». La frase, estrapolata dal programma di sala, sintetizza il senso – e forse in fondo lo esprime – dello spettacolo dell’artista greco Euripides Laskaridis (figura emergente della nouvelle vague della creatività contemporanea ellenica). Inserito nel cartellone del festival Torinodanza – dove però la danza c’è appena qua e là per brevi accenni -, quello che ai nostri occhi rimane di Lapis Lazuli è solo, e niente di più, che un divertente, ammiccante, stravagante spettacolo di teatro, risultato di un immaginario surrealista, fantasioso, grottesco, gotico, che strizza l’occhio a più generi e linguaggi. Dal Bmovie al musical, dal teatro di figura alla favola noir, dal fantasy all’horror. Vi si possono leggere riferimenti al film Nosferatu di Murnau, a Georges Méliès, a Disney, al folklore balcanico.
Ispirato alla roccia metamorfica Lapislazzuli (conosciuta per il suo comportamento imprevedibile sotto pressione e simboleggiante la connessione con la natura e la creazione, con l’ignoto e l’inspiegabile), lo spettacolo esplora il rapporto umano con la paura e il terrore. A incarnarli è un’inquietante, psicopatica creatura, un lupo mannaro selvaggio, una bestia ibrida, metà umana e metà animale, col suo lato temibile e feroce ma che rivela, al contempo, il suo io vulnerabile, sensibile e deliziosamente sprovveduto, specie quando si sottoporrà alle cure di uno psicanalista per prendere consapevolezza delle sue paure più profonde, o si ingozzerà di pillole per frenare la sua rabbia, o dibattuto nell’alternarsi famelico della sua natura mostruosa e il desiderio di possedere la sua vittima durante la luna piena di una notte dall’ammaliante luce blu, nel racconto che lo vede inseguire una fanciulla in fuga.
Il pregio dello spettacolo di Laskaridis – artista definito come burlesco, comico, pazzo, esplosivo e al tempo stesso poetico, affascinato dalle nozioni di trasformazione e ridicolo, e dall’esplorazione del perseverare dell’umanità di fronte all’ignoto e allo sconosciuto – è quello di un raro e ricco teatro artigianale con scene, costumi, maschere e oggetti di preziosa fattura manuale che stupiscono per fantasia ed “effetti speciali” creati a vista.
Mani che svolazzano, alberi che si muovono, scheletri con cui ballare, ombre che si stagliano tra luci e suoni inquietanti, creature antropomorfe che sparano e urlano, travestimenti a gogò che di certo non annoiano considerando le bizzarre invenzioni a getto continuo, e gli intrecci di storie nelle storie con ammiccamenti al pubblico, interruzioni per far ripetere le scene. E un finale che vede il licantropo seduto su un rialzo e addobbato di abiti estrosi come una nostalgica star hollywoodiana, squartare alcuni animali di peluche dai quali escono flutti di denaro; poi cercare consolazione coccolando un gigantesco cavalluccio marino, mentre ripete a noi «What a wonderful, wonderful show; what a difficult, difficult life», Che spettacolo meraviglioso, meraviglioso; che vita difficile, difficile. E ancora: «Il meglio deve ancora venire». Forse la prossima volta.
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