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Le musiche sono un mix avvolgente di sonorità tradizionali algerine e di altri echi mediorientali, di suoni industriali ed elettronici, di percussioni taiko, di canti gregoriani, di risonanze amalgamate a Mozart, Wagner, Fauré: una partitura sonora che ci immerge in un mondo lontano e sempre più vicino a noi. Un’alba del mondo, ancestrale, primitiva, dove gli uomini sono guerrieri di una notte “barbara”. Dapprima divisi, in lotta, contrapposti gli uni agli altri, poi uniti; insieme officianti di riti sacri e pagani, di pratiche marziali, di cerimonie corali, di estasi collettive, artefici di un nuovo ordine umano nel segno di una ricomposta armonia tra i popoli.
Tutto questo espresso con una danza vigorosa, esplosiva, ad alto tasso adrenalinico, dai tredici danzatori della Compagnie Hervé Koubi nello spettacolo il cui titolo tradisce il tema: Les Nuits Barbares, ou les premiers matins du monde. Scenario unico e spettacolare dove l’azione s’incastonava perfettamente è stato il Parco Archeologico Scolacium di Roccelletta di Borgia (CZ), un luogo di pietre millenarie tra ulivi secolari dove “il tempo passa, e rimane”. Qui da vent’anni si svolge, con la direzione artistica di Chiara Giordano, Armonie d’Arte, un Festival internazionale di musica, teatro e danza, che mantiene come sua cifra essenziale il binomio inscindibile di estetica e etica. Binomio rilanciato anche quest’anno, nonostante il momento storico di grande difficoltà, in nome di una resilienza e uno sguardo sul futuro che ha come comune denominatore la bellezza che ci salva. ‘Nuove rotte mediterranee’ è stato il titolo di questa ventesima edizione, una rinnovata narrazione del Mare Nostrum, all’insegna di un nuovo umanesimo possibile riferito a uno spazio geografico e culturale che è quello delle rive mediterranee, luogo di approdi e non di sbarchi, su terre di permanenze e non di transiti.
Les Nuits Barbares, ou les premiers matins du monde
In sintonia con questo soggetto non poteva esserci scelta più pertinente della presenza della compagnia multietnica del coreografo franco-algerino Hervé Koubi, i cui componenti, principalmente artisti di strada breaker, provengono da Algeria, Marocco, Israele, Palestina, Bulgaria, Francia e Italia. All’inizio di ogni spettacolo il coreografo ama sempre presentarli così: «Ho passato cinque anni fra l’Algeria e la Francia, da una parte all’altra del Mediterraneo e mentre tentavo di ritrovare la memoria delle terre dei miei antenati, in Algeria, ho formato una compagnia di tredici danzatori, compagni d’arte che amo chiamare fratelli ritrovati, testimoni di una storia perduta, e con loro sono ripartito per disegnare i contorni di una nuova avventura, per trovare le risposte al mistero delle nostre, comuni, origini». E di comuni origini nell’incontro fra sponde opposte, civiltà e religioni, parla Les Nuits Barbares, ou les premiers matins du monde toccando quel tema millenario e sempre attuale della paura ancestrale dello straniero, dell’altro da sé, per stigmatizzarla e rivelare infine la raffinatezza di quelle culture percepite come “barbare” – parola da leggere nel senso greco originale di “straniero”, o di “uomo libero”, secondo la lingua indigena del popolo nordafricano Imazighen -.
Eccoli a torso nudo questi invasori della terra, abitanti della notte in cerca di luce, con gonne cinte ai fianchi che, in ultimo, toglieranno rimanendo in jeans, e col volto interamente coperto da elmi – poi rimossi – che sono maschere di vetri luccicanti con corna a forma di coltelli: lame argentate che, staccate, diverranno oggetto di aggressioni e di difese. Eccoli apparire tra fumi e penombre, addentrarsi in un mondo sconosciuto, scivolare gli uni accanto agli altri, tentare avvicinamenti sospetti, ingaggiare combattimenti a mani nude, agitare e protendere le braccia indicando oltre gli sguardi; quindi brandire lunghi bastoni metallici come armi trasformati poi, tra rotolamenti e torsioni, movimenti veloci e lenti, in sostegni e simboli religiosi. Non c’è violenza né brutalità in questi scontri ma incontro, assimilazione del gesto e del movimento dell’altro, tensione nel marcare un territorio, allargare lo spazio dell’inclusione, risvegliare i sensi sulla presenza del diverso, proteggendosi e accogliendo, disperdendosi e ricompattando le distanze.
L’atletismo e la plasticità dei corpi a tratti cedono la forma a dei tableaux vivant, immagini di densità pittorica come quella che ricorda un San Sebastiano trafitto dalle frecce nella sequenza dei lunghi bastoni sporti sul corpo immobile di un danzatore al centro della scena. Con grazia tribale sfumando dall’hip-hop all’afro, dalla danza contemporanea alle arti marziali, alla capoeira e alla breakdance, i performer riempiono il palcoscenico di potente fisicità ed energia lanciando in aria uomini che atterrano sulle braccia del gruppo mentre si ode il Kyrie del Requiem di Fauré, e in altri momenti esplosivi quello di Mozart; componendo ammassi diversi, all’unisono, in duetti o in singole ostentazioni; staccandosi in acrobazie e capriole mozzafiato, rotazioni di mani e di teste col corpo all’insù in giri da dervisci capovolti; elevando vittime sacrificali; deponendo infine la forza e ritrovando la pietas in quell’emozionante sequenza finale che li vede ciascuno caricarsi sulle spalle il corpo di un altro – come un moderno Enea, il “profugo” che fugge dalla guerra di Troia con il padre sulla schiena -, uscire lentamente di scena e ritornare tutti dal buio. Uno spettacolo che è un inno alla fratellanza universale.