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È un inno alla natura, al rapporto arcadico dell’uomo con essa per ritrovare una nuova armonia, il dittico ideato dal coreografo Michele Merola che vede in scena, in un’unica serata, Duo d’Eden, brano storico di Maguy Marin, e la nuova creazione di Merola, Pastorale sulla Sinfonia n.6 Op.68 di Beethoven, non nella versione orchestrale ma per due pianoforti (debutto al Teatro Sociale di Trento per la stagione “InDanza”).
Capolavoro assoluto della francese Maguy Marin, Duo d’Eden si potrebbe descrivere come un folgorante viaggio dentro la storia dell’uomo, della sua genesi, dell’origine e della fine. E dell’amore. Suscita molteplici visioni e riferimenti, tra cui quelli biblici. Da un esplicito nesso ad Adamo ed Eva, colti nella nudità del paradiso terrestre con la nascita della donna dalla costola dell’uomo e all’unica carne che formano, ai sopravvissuti a un’apocalisse, unici esseri viventi su una terra desolata, fino agli amanti di sempre nel loro frastagliato rapporto di unione. Creato nel 1986 ad Angers è un estratto del più ampio Eden.
Un’armonia di corpi fusi, nel Duo d’Eden
Rappresenta un’autentica rarità la consegna da parte della coreografa di questa sua breve opera alla Contemporary Dance Company di Merola, riconoscendo l’alta qualità della versatile compagnia di Reggio Emilia e degli interpreti chiamati ad eseguire la coreografia (rimontata per l’occasione da due danzatori storici di Marin, Cathy Polo ed Ennio Sammarco). L’armonia, la simbiosi, il rigore esecutivo e l’ardua prova fisica tra Emiliana Campo e Nicola Stasi – visti al debutto a Trento – lasciano senza fiato, bravissimi nell’immergerci dentro un mondo primordiale evocato solo dalla danza muscolare dei loro corpi nudi, velati da un costume color carne, col viso mascherato e una lunga chioma.
Non facile da interpretare Duo d’Eden è un duetto di articolata fisicità, di gesti calibrati, minuziosi, che richiede una fusione anche di anime. È un’ascensione sul corpo dell’altro. E trasfigurazione di essi. Sotto il rumore di una pioggia incessante, di tuoni e lampi, di cascate d’acqua, la coppia, tra lentezze e contorsioni compulsive, tesse un continuum di movimenti; la donna, serrata, avviluppata, si contorce con le gambe e le braccia all’uomo che la tiene, la prende sulle spalle, sopra la schiena, la sostiene, trattiene i sui scatti, i suoi attacchi e difese, la fa roteare, senza mai farla cadere se non, in alcuni momenti, facendole appena toccare terra col piede.
La plasticità dei due tortuosi corpi che sembrano saldati unitamente, che modellano forme primitive, dei quali sentiamo il respiro e l’affanno, il ritmo interno che sprigiona eros, solitudine, violenza, tenerezza, ci riconduce nei diciassette folgoranti minuti all’innocenza originale di un eden sognato e perduto, marcando il primo grande amore della storia dell’umanità.
Pastorale: la scrittura astratta di Michele Merola e le scenografie proteiformi
Nel parlare di natura, musicalmente, è immediato pensare alla Pastorale di Beethoven. La celebre Sinfonia per cinque movimenti, qui eseguita nella trascrizione per due pianoforti dai fratelli Guarino, è stata l’ispiratrice della nuova creazione di Michele Merola. «Più espressione del sentimento che pittura» ebbe a indicare Beethoven come sottotitolo precisando l’intenzione tematica della composizione. Non poteva non essere così anche per Merola il quale, rifuggendo un linguaggio descrittivo, si muove su un piano di scrittura astratta, realizzata con eleganza e minuziosa cura formale, e con sequenze evocative che sembrano suggerire immagini scaturite dalla musica.
Contenitore ed elemento drammaturgico è la suggestiva scenografia modellabile costituita da una grande fondale in tulle retato con appese delle sacche proteiformi. Chiaramente ispirata alle installazioni immersive e ancestrali dell’artista brasiliano Ernesto Neto – percorsi labirintici da attraversare con il corpo e con i sensi -, questa di Alice De Lorenzi fa pensare a un tendone accogliente come la madre-terra che invece raffigura. Fondale che è roccia, montagna, valle e prato, e quelle protuberanze pensili simili a semi interrati.
Modellando lo spazio vuoto, l’installazione scenografica arretrerà, si alzerà e abbasserà, inglobando ed espellendo i danzatori che ne faranno rifugio, campo che nutre, paesaggio ostile, pacifico e idilliaco – espresso anche con i costumi neri e dai colori terrosi, innesti di fiori sulla schiena di un danzatore o una corona da cervo coi rami in testa -, infine territorio di festa.
In questa collocazione d’ambiente la coreografia – qualche messa a punto alla drammaturgia dei movimenti arricchirebbe un certo andamento lineare a favore di una maggiore incisività – segue un andamento di flussi e riflussi: con scene corali spezzate e all’unisono, assoli, duetti e quartetti nel comporsi di slanci, di gesti morbidi, ampi, fluidi, rotti da linee nette e prese concitate, per giungere alla gioiosa sequenza finale dopo la tempesta, col gruppo illuminato in penombra, riunito all’interno della tenda, che alza lo sguardo in alto verso il Creatore.