Corpulento, calzoncini e scarpe da ginnastica come vestiario principale, volto da eterno ragazzone ma con una mente fertilissima, in perenne attività creativa, mossa da un’inesauribile curiosità e fantasia. Quella che fin da piccolo lo ha animato. Ed è un omaggio al suo io adolescente, al suo alter ego giovanile, al passaggio di trasformazione all’età adulta il nuovo spettacolo Firmamento (debutto a Rovereto per il Festival Oriente Occidente, anche coproduttore, e il 15 ottobre al Festival Aperto di Reggio Emilia). Estro artistico come pochi, il coreografo e regista Marcos Morau, sorprende ancora per la visionaria teatralità nel far muovere attorno alla danza, attraendoli e collegandoli, più mondi e linguaggi artistici – teatro, cinema, design, fotografia – com’è nel peculiarissimo suo stile e in quello della compagnia La Veronal da lui fondata.
In Firmamento siamo dentro un laboratorio di sperimentazione. Sulla destra una porta e un’insegna con la scritta Exit. Attorno ad una articolata macchina tecnologica un gruppo di “lavoratori della mente umana” che parlano un mix di lingue orientali (di vaghe fogge cinesi anche i costumi), sono intenti ad elaborare un casco particolare a un “ragazzo” – un danzatore arrivato dalla platea con zainetto in spalla – che gli permetta di sognare e creare altri mondi. Appena indossato, guardando un film si lascia coinvolgere da ciò che vede. Come in una scatola cinese si intrecciano, via via, diversi piani narrativi e visivi nella mobilità dell’ingegnoso impianto scenografico firmato da Max Glaenzel. Svanito ogni oggetto e arredo, una parete indietreggerà aprendosi dalla semioscurità allo spazio luminosissimo di una grande stanza asettica, poi colorata. Qui il giovane, varcando i confini della realtà e della mente, si ritroverà in un mondo parallelo vedendo sé stesso in un ipotetico futuro con lo scorrere di disegni animati in bianco e nero che ripercorrono la sua vita, e l’apparizione degli altri danzatori, poi di un omone mascherato, un televisore, una sfilza di sedie, un letto bianco, un pinguino e un massiccio inuit (scoprendo che il termine della popolazione artica significa “umanità”, ci fa pensare all’ultimo essere vivente portatore di un barlume di vita).
L’amalgama di estetiche di Morau fa riferimento al mondo tecnologico, ai videogame e ai cartoon giapponesi, ai disegni animati, alla fantascienza del cinema di Stanley Kubrick e a quello di David Lynch, alla musica popolare e contemporanea, alla marionettistica orientale (c’è un bambolotto parlante, “personaggio” centrale dello spettacolo, manovrato a vista, che in più momenti narrerà, da una voce fuori campo, la sua struggente storia). I movimenti dei danzatori, dai gesti disarticolati, spezzati, ricomposti, bloccati in ralenti e in tableaux vivant, scuotono la scena pulsante di visioni, con un trenino che l’attraversa, un astronauta che s’invola, fasci luminosi illuminanti la platea e luci stroboscopiche, bastoni in mano ai performer che percuotono tamburi: il tutto tra danze sincopate e suoni techno, siderali, compulsivi (musiche di Juan Cristóbal Saavedra), dove immergersi senza inseguire una linearità narrativa.
Lo spettacolo è da leggersi alla luce del lungo testo poetico di Carmina S. Belda e Pablo Gisbert che scorre sullo schermo e recitato dalla voce off, riconducibile al perturbante viaggio onirico del protagonista portato dal vento dopo essersi lanciato dalla montagna col paracadute, si spinge a volare sopra il cielo, e ancora più in alto. «Lassù ho visto gli angeli – recita la voce off – …. Ma non mi bastava, e ho deciso di andare ancora più su. Più in alto, sopra la mia casa, le mie montagne, gli uccelli, le nuvole e gli angeli, ho visto Dio». Prosegue poi con altre parole rivolte agli sguardi giovani, ai «…figli sopravvissuti dei grandi movimenti migratori, dei cambiamenti climatici, delle siccità, delle carestie e delle pandemie. Siete i figli sopravvissuti del totalitarismo, delle dittature e dei massacri. Ma siete anche gli eredi dei progressi tecnologici, l’agricoltura, l’architettura, la filosofia, l’arte».
E riprende: «…Ma Dio mi ha detto: ci sono cose più interessanti lassù che nemmeno io conosco. …Sono andato ancora più su. E ho visto la nostra intera galassia, il nostro sole enorme era solo un piccolo punto luminoso. E ho pensato che la mia casa, i miei amici, le mie montagne, gli angeli e Dio, tutto, da dove mi trovavo, che neanche riuscivo a vedere, tutto non esisteva più. E tutto quello che dovevo fare era inventarlo».
Un inno, quindi, al coraggio della fantasia, al potere dell’immaginazione che può riempire le parti vuote dell’esistenza. Dai buchi del fondo schermato della scena s’accendono un’infinità di piccole luci: quel firmamento di stelle che continueranno a risplendere, e che nessuna intelligenza artificiale potrà mai riprodurre.
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