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Al Festival Danza Urbana di Bologna, corpi da amare, da odiare, da abitare
Danza
Le turbolenze dell’amore di Sharon Fridman
Nella relazione a due dei corpi, sono pochi come lui, Sharon Fridman – coreografo di origina israeliana, ma residente a Madrid -, a saper indagare e disegnare in danza potente, i sentimenti che li muovono. Amore, odio, attrazione, repulsione, fiducia, paura, dipendenza, solitudine, unione, vuoto. Ad alto tasso di fisicità, scandito dal ritmo del cuore, è il duetto 147 Abrazos, un estratto dal più ampio Dosis de Paraiso (concepito per il palcoscenico e con nuove tecnologie), visto al 25mo festival Danza Urbana di Bologna diretto da Massimo Carosi, nel grande spazio all’aperto Dumbo, e quindi ancor più veritiero per la dimensione umana che acquista l’incontro tra i due interpreti. Magnetica e folgorante la coreografia costruita da Fridman sui magnifici danzatori Melania Olcina e Arthur Bernard Bazin.
Ad apparire da dietro un verde arbusto, e iniziando il suo movimento da ferma, è lei; poi di corsa arriva lui. L’abbraccio che si danno, la lenta esplorazione dei loro corpi a gambe nude, vestiti solo di un giacchetto argentato – quasi una corazza che poi si toglieranno –; le mani sul viso, la tenerezza e la passione, il conforto e la protezione nei gesti ripetuti, si trasformano impercettibilmente in sempre più violenti e reciproci colpi al petto. Sempre più aggressivi. Le sequenze che seguono innescano un fitto dialogo d’infinite combinazioni, di precari e alterni equilibri di potere tra uomo e donna, di disputa tra pari. Si dipana, avvinghiati l’uno all’altra, una partitura di intrecci e contorsioni, scivolamenti a terra, cadute e prese turbolente, con un ritmo all’unisono del loro respiro affannoso. Un serrato corpo a corpo che a tratti si placa e ricomincia fino a separarsi e ritrovarsi di nuovo soli, dopo aver lasciato nell’etere i segni indelebili di una relazione d’amore.
Corpi come architetture da abitare
Nel lungo, vasto Spazio Bianco, uno dei capannoni industriali dell’ex scalo ferroviario Dumbo, cinque interpreti, anche autori – Annamaria Ajmone, Marta Bellu, Jari Boldrini, Sara Sguotti e Cristina Kristal Rizzo -, entrano dal fondo, dando vita a un ecosistema di forme e movimenti senza soluzione di continuità, dove ciascuna esprime la propria personale tensione in un accordo solitario o ravvicinato, a tratti corale, con gli altri.
In questo habitat condiviso, che vibra di posture sciolte, di particelle corporee rarefatte, compulsive, ritmiche, ripetitive; che si espandono e mutano al tempo di un loop sonoro – playlist musicale di Frank Ocean –, c’è il senso dell’abitare uno spazio in infinite declinazioni, il tentativo di creare un’architettura espressiva dei corpi in un paesaggio emozionale.
La performance, dal titolo Echoes, si sviluppa nell’ambito della ricerca e della produzione di TOCCARE_The white dance (premio Danza&Danza 2020, miglior produzione italiana) che Cristina Kristal Rizzo ha portato in scena lo scorso anno, creata nel periodo del lockdown. Echoes rappresenta il prolungamento di Toccare, dove c’è un pensiero dello stare insieme e del condividere, dove gli sguardi vagano, si posano, e si lasciano guardare, sperimentando un punto di vista virtuale che si aggiunge a quello reale. Una parte dell’azione, infatti, prevede il live streaming generato dal vivo dagli stessi danzatori che si riprendono in sequenze ravvicinate e con gli spettatori collegati, se vogliono, ai propri cellulari, permettendo così di cogliere dettagli dei corpi e altre percezioni mantenendo una doppia visione.