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«La Sicilia non esiste. Ci sono cento Sicilie», diceva Gesualdo Bufalino. Raccontarla non è facile per le sue infinite stratificazioni. Quella evocata dal coreografo Roberto Zappalà nello spettacolo Instrument Jam non è un viaggio nel suo folklore o attraverso alcuni luoghi comuni. Come, del resto, potrebbero far pensare l’uso del marranzano e la sequenza iniziale dove, nella costante penombra della scena, un gruppo velato e dalle gonne strette, rigorosamente in nero come nella più stereotipata tradizione, avanza battendo i tacchi a intervalli ritmati.
Queste sagome femminili si bloccano, scrutano, sospirano. S’inginocchiano, siedono a terra, si fanno il segno della croce, mandano baci, sospirano. Le loro movenze sono di donne, di vedove luttuose che snocciolano litanie di gesti trattenuti, pudichi. Se non rivelarsi, in realtà, tutti uomini nello strappo improvviso dei vestiti sotto una luce di colpo abbagliante e di una canzone pop allegramente ironica, mentre ammiccano col pubblico.
Dunque, sotto il vestito altre identità che, da questo momento, e in avanti, dello spettacolo, spiazzano qualsiasi stereotipo sulla sicilianità. A essere rappresentato è una maniera di esporsi col mondo, con la mente e i gesti degli altri. È il comportamento dei corpi siciliani – come l’arroganza, o l’atteggiamento mafioso, religioso, o semplicemente quotidiano – all’interno della società.
Il catanese Roberto Zappalà, coreografo di grande respiro internazionale, della sua terra ne fa una “ri-mappatura”, fonte d’ispirazione costante del suo fare danza. Vi è fortemente radicato con la sua compagnia che festeggia i 30 anni di attività. Recentemente vi abbiamo raccontato di un altro suo spettacolo, al Teatro Regio di Torino, ispirato a La Giara, novella di Pirandello. Nell’ambito del Florence Dance Festival, anch’esso nel trentennale di vita, ecco riproporre lo spettacolo che più ha diffuso nel mondo il suo nome: Instrument jam, tappa di una trilogia dedicata, ciascuna, a uno strumento musicale, qui riuniti nella jam session a cui allude il titolo.
L’idea drammaturgica, per Roberto Zappalà, è solo l’origine di un’estetica per approdare a uno stile di danza. In Instrument jam egli sublima le logorate immagini di credenze, concetti e abitudini della Sicilia attraverso una danza pura, vigorosa, d’urto, che segue e incalza le sorprendenti vibrazioni del marranzano di Puccio Castrogiovanni dalle inedite e innovative sonorità, dei tamburi di Arnaldo Vacca e l’hang di Salvo Farruggio. Sulla musica dal vivo i sette danzatori, dalle tuniche color terra, intrecciano scatti felini, nervosi, velocissimi, con pose scultorie, languide movenze, corse affannose che cedono il passo a soste che immobilizzano le membra in un’arcaica attesa. È l’inerzia a staccarsi da terra, a intraprendere attività, a distillare il tempo.
Ma appena il balzo è fatto, l’energia esplode, corale o solitaria, furibonda, inarrestabile. E determina relazioni, scompagina le traiettorie. Così, una pacca sulla spalla, data e ridata, si trasforma in lotta, un abbraccio in mischia, uno sguardo in significati moltiplicati. Pur riscontrando chiari e ironici riferimenti a una gestualità tipicamente siciliana dove i movimenti delle mani che toccano parti del corpo o delle braccia che sottintendono allusioni oltre le parole rimandano a un radicato immaginario iconografico, la coreografia tende a un’astrazione che è respiro e poetica del movimento stesso.
Il corpo del danzatore diventa strumento d’indagine delle sue potenzialità. Lo ribadisce al microfono un danzatore staccatosi dal gruppo, che recita: «Ascolta la musica del tuo corpo, e balla». E sciorina frasi, nomi di personaggi, e accostamenti improbabili, come invito a tutti e sempre a danzare, mentre a lato freme il gruppo in una danza travolgente che si scatena in un finale di dirompente energia e solarità.
Encomiabili i sette danzatori, da citare tutti: Adriano Coletta, Alain El Sakhawi, Gaetano Montecasino, Roberto Provenzano, Antoine Roux-Briffaud, Fernando Roldan Ferrer, Salvatore Romania.
In alto: Instrument jam, ph. Serena Nicoletti