Categorie: Danza

Storie di corpi al Gender Bender 2019: reportage da due spettacoli esplosivi

di - 18 Novembre 2019

Tra gli spettacoli che abbiamo visto all’edizione 2019 di Gender Bender di Bologna – festival internazionale e interdisciplinare dedicato alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale, di cui scrivevamo anche qui – questa volta vi parliamo de L’età dell’horror e Un Poyo Rojo. Due diversi stili di danza, due storie, due coppie di uomini, due differenti tipi di relazione, tra la paura e il comico.

L’età dell’horror, ovvero, l’eterno conflitto

Si tengono costantemente per mano, senza staccarsi mai, in un incessante movimento circolare, sinuoso, di tutto il corpo che s’intreccia in quello dell’altro perforandolo negli anfratti delle braccia, nei vuoti tra un piegamento del busto e delle gambe. E nelle infinite posture che si creano: armoniose, sporche, fluide, rigide, avvolgenti, gravose, resistenti. Sono due corpi virili, due età mature vaganti in una terra desolata, esposti nella loro intimità fisica e dell’anima, fatta anche di sguardi complici, in attesa di risposta, che chiedono e danno. Sguardi dapprima vicendevolmente imbarazzati, poi rivolti verso il pubblico seduto attorno circondandoli come in un ring. Avvertiamo il loro pudore nel sentirsi esposti, osservati oltre la pelle, dentro la propria interiorità.

Il loro movimento ossessivamente legato, tenuto stretto tra il voler fuggire staccandosi e il bisogno di rimanere, è un contrappunto all’Arte della fuga di Bach sulle cui note ripetute all’infinito si annodano e snodano i due danzatori in un serrato dialogo coreografico. Attraversano lentamente i bordi dello spazio spoglio, luogo famigliare ed estraneo al contempo, imprimendo, a tratti, velocità al loro andamento, tra momenti di quiete e di silenzio, poi abbandonandosi a terra, rotolando, sostando, tornando all’attacco, riprendendo forza e vigore dopo una lotta.

In questi corpi specchianti l’uno coll’altro, avvinghiati nella tensione a essere un tutt’uno fondendosi, c’è un tumulto di sentimenti palpabili, sempre in agguato. Affiorano, svaniscono e cedono il posto a continui stati d’animo dettati da un dialogo muto di amore crescente e incondizionato: esprimono paura, difesa, resistenza, rivalità, tenerezza, diffidenza, abbandono, aggressività, incertezza, e bisogno di appartenenza, di protezione, di sicurezza, di rifugio. Esprimono la necessità di parlare, di confrontarsi, di negoziare, per sconfiggere la paura.

È tutto così leggibile e immediato in quest’avvolgente e ipnotica partitura coreografica firmata da Riccardo Buscarini, da esserne subito catturati nonostante un’eccessiva lunghezza e ripetersi dei movimenti. Ma tant’è. Buscarini con L’età dell’horror gioca sulle parole del titolo, intendendo anche “l’età dell’oro”, cioè un tempo che fu, felice e prospero; e uno, quello d’oggi, infelice, di orrore. E di paura. Paura dell’altro, dello sconosciuto, della solitudine, dell’abbandono; paura del futuro, dell’ignoto, del tempo che fugge. Mettendo in scena la fragilità delle relazioni umane, e quell’irrefrenabile impulso a perdersi completamente nell’altro, Buscarini, rifuggendo dalla trappola della ricercatezza estetica, cesella di forte senso drammaturgico il gesto danzato dei due intensi interpreti, Andrew Geffré-Gardiner e Mathieu Geffré-Gardiner. E suggella la coreografia con una sequenza finale bellissima, che vedrà la coppia fondersi con una gestualità ancor più intrigante, quasi animalesca. Abbracciandosi e contorcendosi, usando soltanto la forza dei denti, ormai sfiniti, si sfileranno, rivoltandola e coprendosi il volto, la rispettiva t-shirt nera, il cui risvolto luccica dorato.

Interpretiamo questa immagine come il riflesso e la preziosità della loro interiorità ormai svelata. Quella, in fondo, di ciascuno, celata sotto la scorza esterna dell’apparire. Più ampiamente L’età dell’horror lo si può leggere, forse, anche in senso politico, come la lotta tra due forze antagoniste, ma inesorabilmente vincolate: due poteri forti nella continua tensione di sfruttare la debolezza dell’altro, farlo soccombere, piegare al proprio tornaconto. L’eterno conflitto tra vincitori e vinti.

Il mix esplosivo di Un Poyo Rojo al Gender Bender

I due protagonisti, in quanto a fantasia, energia e comicità, non hanno eguali. La loro performance è un mix esplosivo di danza di tutti i generi – dalla classica al contemporaneo, dalla breakdance al tip tap alla salsa –, di fisicità leggera e acrobatica, di puro teatro fisico e di intelligente ironia come capita di rado. Incanta, seduce, coinvolge grandi e piccoli. Troverete ancora altri termini per descrivere lo spettacolo Un Poyo Rojo del duo argentino Luciano Rosso e Nicolas Poggi, coreografia e regia di Hermes Gaido. Lo spettacolo è ormai diventato un cult. Continua a girare il mondo (in Italia, i primi a scoprirli, anni fa, sono stati Giancarlo Mordini e Angelo Savelli del Teatro di Rifredi), instancabilmente da oltre dieci anni. Senza sosta. Al punto che, altri progetti della coppia artistica sono fermi in cantiere per mancanza di tempo da dedicare al nuovo.

Un Poyo Rojo non conosce barriere linguistiche. Non ha bisogno di parole, né di musica. Parlano e cantano i corpi sensuali, musicali, atletici, dinoccolati, dei due interpreti, le espressioni e i movimenti che producono, le mimiche facciali, i molteplici gesti articolati che evocano pensieri e azioni, che rimandano a personaggi e a situazioni reali. Possiamo leggervi le espressioni di Buster Keaton, la buffoneria dei cartoon di Tom e Jerry e di Gatto Silvestro, la severità delle arti marziali, la plasticità e la forza dei giocatori di rugby. E altro ancora. Il filo rosso che lega lo spettacolo è la competizione maschile, che sfocia nell’amore virile tra due uomini in gara. Affiora goffamente da alcune sequenze in cui uno dei due, corteggiandolo, manifesta un’attrazione verso l’altro che invece si rivela riluttante.

La storia è un semplice pretesto per una serie di numeri ad alto tasso adrenalinico. Si svolge in uno spogliatoio da palestra – due armadi metallici e una panchina sono sufficienti – con i due personaggi inizialmente indifferenti, i quali, tra un gesto e un movimento accennato, provocato o casuale, ingaggiano, singolarmente o in coppia, in sincrono o in contrasto, una buffa gara a chi sa danzare meglio, sfoggiando le loro capacità di performer, incluso la boxe e il wrestling.

Ne viene fuori un’irresistibile performance difficile da rendere con le parole, fatta com’è di complicità, seduzione, diffidenza, ironia, continuamente sagomate dalla fervida immaginazione del duo. A interrompere la gara, creando una pausa di tregua, è il suono di una radio sintonizzata su diversi canali. Da specificare che le voci, le notizie, le musiche e le canzoni che si susseguono cambiando canale, non sono preregistrate, ma quelle realmente in onda sulla radio locale del momento e della città dove si svolge la rappresentazione (il duo la chiama “drammaturgia del caso”). Questo permette a Luciano Rosso di improvvisare degli sketch con le esilaranti espressioni e smorfie del viso, di occhi e bocca e mani, che ne hanno fatto, per queste sue doti attoriali, un autentico fenomeno su Youtube.

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