C’è una sfocatura dei corpi in quel grande tulle che copre l’intero proscenio, maculato da schegge luminose intermittenti e da vampate di colori – prima giallo, poi rosso – che esplodono e subito si diradano. C’è un balletto di ombre evanescenti che avanzano e indietreggiano lentamente fino a scomparire e ritornare nel loro procedere a tentoni, lasciando sul telo bianco tracce di mani, di braccia, di schiene, di volti, e di oggetti – un tavolo, un trolley, delle forbici, una radiolina, occhiali scuri -, che subito si dissolvono alla nostra vista. A loro, ai danzatori dei quali scorgiamo appena le sagome dietro quello schermo opalescente, è stata tolta.
“La paura ci ha resi ciechi”, “Ci vedrò sempre meno anche se non perderò la vista diventerò sempre più cieco di giorno in giorno perché non avrò più nessuno che mi veda”, sussurrano alcuni tra suoni cupi, clangori, onde sonore (musica di Fabrizio Cammarata) che brulicano nello spazio espandendone la percezione. La sensazione di una nube lattiginosa che offusca colori, cose, persone, propagandosi via via sulla popolazione del noto romanzo Cecità di Josè Saramago, per la perdita della vista causata da una improvvisa e misteriosa epidemia, è resa con potenza immaginifica nell’impianto scenografico e coreografico che Virgilio Sieni ha costruito in questa sua ultima creazione – liberamente ispirata al libro omonimo dello scrittore portoghese – facendovi risuonare echi di una condizione umana a noi vicina.
«Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono», scriveva Saramago nella sua dura denuncia del buio della ragione. La grande metafora di un’umanità bestiale e feroce, incapace di vedere e distinguere le cose su una base di razionalità, artefice di abbrutimento, violenza, degradazione, Sieni la restituisce con la sensibilità della sua poetica ricreando un universo mentale e fisico generato da posture tattili, da modulazioni percettive degli arti, da mappe gestuali disegnate dai sei eccellenti danzatori – Jari Boldrini, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Lisa Mariani, Andrea Palumbo, Emanuel Santos – in quello spazio claustrofobico che, nella seconda parte dello spettacolo, si aprirà su una grande stanza bianca. Sollevato lo schermo, la scena ora delimitata da tre pareti di tendaggi bianchi, racchiude oggetti sparsi, alcuni dei quali intravisti precedentemente come sagome; e, distesi al suolo, i corpi febbricitanti. Intuiamo essere il vecchio manicomio descritto nel romanzo, in cui i ciechi, abbandonati a sé stessi, sono rinchiusi.
Proprio qui, dove l’uomo rivela la sua massima ferocia con i suoi comportamenti e istinti primordiali, si muovono gli interpreti che sbucano strisciando a terra, mentre il respiro affannoso di una voce off ripete frasi come “Perché se la vergogna ha ancora un significato in questo inferno in cui ci hanno messo a vivere e che noi abbiamo reso più infernale dell’inferno, è solo grazie a chi ha avuto il coraggio di andare ad ammazzare la iena nella sua tana”. Nel continuo tentativo, sempre spezzato, di alzarsi, sparsi o coesi, assumono posture instabili, tra spasmi sfiancanti, rovesciamenti e inciampi che infine reggono il carico dei corpi, gli uni degli altri. Qui la coreografia diventa pulsante nel ritmo degli arti, nella ricerca di contatto negato e accolto, di ascolto dei sensi, per ritrovare solidarietà e una nuova percezione di sé, dell’altro e dell’abitare. La sintetizzerà un Arlecchino in tuta bianca, senza volto né colori, il quale, manovrando una lunga barra con in cima un microfono, si muoverà battendola sulle pareti amplificando così il suono dei colpi, come a voler trovare e aprire, seguendo la vibrazione sonora, una via di fuga. Quei tonfi richiameranno un gruppo di figure animalesche con le teste di cane, intenti a lenire la sofferenza, in difesa e accudimento, accompagnando il vuoto dell’anima e lo smarrimento dei corpi.
La danza solitaria, sul proscenio appena illuminato e pieno di brandelli, di un cervo antropomorfo che chiude lo spettacolo – figura, forse, di una possibile rinascita e guarigione -, si aggiunge ai tanti rimandi iconici che popolano il vocabolario anche visivo di Sieni (l’Arlecchino, i Satiri, l’immaginario pittorico di Michaël Borremans, le atmosfere di Giorgio Agamben…). Che in questa creazione coreografica, trovano una mirabile fusione. Per un nuovo inizio.
Visto al Teatro Mercadante di Napoli, lo spettacolo “Cecità” – una produzione Centro di Rilevante Interesse per la Danza Virgilio Sieni, Fondazione TPE Teatro Piemonte Europa e Fondazione Teatro Metastasio di Prato – prosegue la tournée a Rovereto (TN), Teatro Zandonai, 26 marzo; Genova (GE), Teatro Ivo Chiesa, 17 aprile; Pesaro (PU), Teatro Rossini, Pesaro Danza Focus Festival, 18 maggio.
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