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Seduti in una sala riservata solo per noi, stiamo per vedere qualcosa di mai visto, l’EDEN e l’unica cosa che sappiamo è che non verrà nessuno; impossibile non sentirsi agitati.
Ci vuole un certo coraggio (dal latino*coratĭcum, derivazione di cor e quindi di «cuore») per prendere posto sulla migliore poltrona del teatro, perché abbiamo un appuntamento con l’ignoto.
Tre performances, ideate da tre coreografi internazionali, e per nessuna di queste ci è dato sapere cosa succederà: è nostro compito determinarlo, è importante prestare attenzione poiché l’unico pubblico siamo noi.
È così che, nella sua 36esima edizione, ci si presenta il festival Bolzano Danza. In seguito ad una revisione totale dei progetti iniziali, il festival, quest’anno, sotto la direzione artistica di Emanuele Masi, prende tutti i limiti che potevano esserci sulla strada -sappiamo bene quanti e quali- e li trasforma in qualcosa che ci catapulta dentro la natura più profonda del nostro ruolo di spettatore mettendoci a nudo di fronte a qualsiasi pensiero prestabilito.
Eden – Danza per uno spettatore è una cosa che non si ripeterà mai più, nemmeno se si pensasse di rivedere la stessa coreografia; è un progetto per il tempo presente, è una realtà che si crea tra l’interprete e lo spettatore.
Nessuna regola e nessuna certezza, ci vuole cuore.
L’Eden a Bolzano
Che ci si trovi a vedere Annie Hanauer che danza leggera e decisa la coreografia impalpabile e risoluta “EDEN selon Rachid”, o che ci si senta richiamati dal ritmo magnetico e primordiale e dalla potenza di Riccardo Meneghini che interpreta “EDEN of Carolyn”, o che ancora si venga calamitati dentro dieci minuti di un tempo irrisolto interpretato da Laura Scarpini in “EDEN secondo Michele” (lasciando posto a tutte le altre possibilità, aperte da altri sette performer) capiamo che c’è molto che possa essere ancora preso in considerazione: la diversità, l’inclusione, la confusione, la leggerezza, le radici e il tempo. Elementi che arrivano alla nostra percezione con modalità innate e indefinite e che, proprio per questo, meritano di essere intercettate.
Le coreografie di Carolyn Carlson, Rachid Ouramdane e Michele Di Stefano vivono attraverso i gesti di ogni danzatore che, nell’esclusiva relazione con il suo spettatore, va alla ricerca dell’Eden: quel teatro dove la dimensione del tempo non fa che corrispondere continuamente al suo presente.
Finiti i tempi in cui potevamo stare seduti per conto nostro su una poltrona in sala commentando qualsiasi cosa senza stare nemmeno troppo attenti, se si vuole entrare nell’Eden ci si deve stare; essere presenti, qualsiasi cosa succeda.
Non è poi questo che ci aspettiamo dalla cultura? Che sia viva e che occupi limiti, che attraversi confini e chiusure con lo scopo di interrogarli e trasformarli nell’esatto opposto?
Spente le luci, ci troviamo nel mezzo di una vita pulsante. Il gioco cambia regole, è imprescindibile e ribalta i canoni: il danzatore esiste in relazione allo spettatore e lo spettatore esiste in relazione al danzatore; sono presenze indispensabili l’una all’altra, legate da un reciproco respiro che permette di farsi da specchio a vicenda, creando lo spazio per condividere un tempo intimo e personale. Uno danza ed è guardato, l’altro guarda ed è “danzato”. Insieme avranno costruito un momento che ha avuto modo di accadere solo lì, dando spazio al valore della condivisione di un istante.
C’è bisogno di esposizione per captare la vita. È un sistema complicato ma essenziale, e sappiamo che per fare spazio c’è bisogno di apertura.
È qui dunque che riemerge la vera relazione con il teatro: quella profonda, che si nutre delle domande sollevate da un dettaglio, da un ritmo, da un sorriso o da un gesto. Quella relazione capace di metterci in discussione, che pianta un seme dentro l’intima prospettiva del nostro sguardo. In fondo, se decidiamo di condividere noi stessi con gli altri non facciamo che includere nuove possibilità, che si apriranno dentro di noi per fiorire, come nell’Eden.