La programmazione di Interplay, il festival di danza contemporanea di Torino, diretto da Natalia Casorati, ogni anno riserva belle sorprese ospitando nuovi autori, nomi in auge e altri già affermati, del panorama coreografico italiano e internazionale. Tre gli spettacoli da noi visti. L’apprezzamento maggiore va a Leïla Ka con Pode ser, un folgorante assolo di 15 minuti – creato nel 2018, le ha aperto la notorietà internazionale – in cui possiamo scorgere, sintetizzato, il background della sua formazione che va dalla danza urbana hip hop degli inizi alla teatralità di Maguy Marin, alle successive influenze di altri linguaggi contemporanei.
«Volevo parlare di tutto ciò che dovremmo essere, di ciò che sogniamo di essere e di ciò che siamo davvero», aveva dichiarato la coreografa francese descrivendo il suo lavoro, il primo di una trilogia volta ad esplorare differenti linguaggi coreografici e molteplici identità . Il magnetico brano interpretato dalla danzatrice Anna Tierney vestita di una lunga e leggera camicia da notte, jeans neri sotto e scarpe da ginnastica – un’unica identità -, cattura sguardo e sensi. Affronta il rapporto con se stessa, con gli altri e con la società .
Sotto il fascio di luce che la contiene, illuminata anche da un successivo lampadario oscillante, la sua è una presenza forte, magnetica, determinata. Inizialmente ben piantata, in piedi, tenta di liberarsi, imprigionata com’è con quelle braccia che tiene incollate al petto e che la immobilizzano similmente a una camicia di forza. Una danza da combattimento, quasi tutta di gomiti, muovendoli a scatti, vorticosamente; poi placandosi, mutando azioni e fisicità . Sono gesti netti, taglienti come il suono metallico e percussivo che fende l’aria e la colpiscono; articolati come i rumori elettronici che si sovrappongono; vulnerabili come la musica di Schubert che improvvisamente l’attraversa. Il suo corpo oscilla, accusa i colpi, resiste, risponde, allunga le braccia, esce dal cerchio, vi ritorna, volteggia a terra con giri di krumping. Vorticando, la veste avvolge il suo corpo come un bozzolo, si rialza con la fierezza di una metamorfosi avvenuta, dopo aver danzato sulla melodia di Schubert, e scomparendo al calar della luce mentre ruota come un derviscio, mantenendo sempre quello sguardo caparbio, sfidante, dall’inizio alla fine. Liberato.
Nel loro duetto Ordinary people, Marco Di Nardo e Juan Tirado, danzatori e coreografi italo-spagnoli della Frantics Dance Company con sede in Germania, rivelano il loro background influenzato da breakdance, b-boying, arti marziali e danza contemporanea. Una fusione che si traduce in una coreografia potente in cui l’energia d’acciaio della coppia esprime uno sdoppiamento generato dalla mente dei singoli, dal caos interno che affiora e li anima. Avvinghiati all’inizio, rotolando si dividono. Nell’affiorare del mondo complesso dell’inconscio, si scoprono diversi, ma rimangono ancora insieme nello svelarsi, poi si allontanano, si trasformano, reagiscono l’uno ai gesti dell’altro. La musicalità che i corpi sprigionano, inizialmente sempre di schiena, speculari o spaiati, battaglieri o in osmosi, di rigoroso controllo e precisione nei continui movimenti teneri o combattivi, si evolve e si trasforma con forza poetica, manifestando nell’abbraccio finale il bisogno d’amore e di essere riamati.
Lo stesso tema, ma con sfumature diverse, caratterizza un altro duetto: La medida que nos ha de dividir di e con Lucia Burguete e Diego Pazó. La tensione che i due interpreti attivano coi loro corpi, è negli intrecci snodabili, nelle spinte di braccia e gambe, nei salti e nei posizionamenti a terra sulla schiena, negli allineamenti dei volteggi, nelle prese dinamiche trattenute in aria, nelle bocche catturate con le mani. Misurandosi nello scorrere del tempo si trafiggono e si distinguono, per ritornare a stare di nuovo insieme.
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