Cos’hanno in comune il celebrato
Aqua Table dell’ancor più celebrata architetta irachena con cittadinanza inglese
Zaha Hadid, la
De La Warr Paviolin Chair degli inglesi con cittadinanza inglese
Barber & Osgerby e il divano
Chester di
Future Systems alias Amanda Levete? Alasdhair Willis, ex publishing director della rivista “Wallpaper” e oggi Ceo di Established & Sons così rispondeva qualche tempo fa dalle pagine di “Casa Vogue”:
“L’unica cosa che ci sta veramente a cuore è il design di livello creato da grandi artisti che si accostano al lavoro ognuno da e con un proprio originale punto di vista. Non esiste un unico ‘stile della casa’. Noi siamo la nostra diversità”. Difficile mettere insieme in maniera più coincisa parole che ai frequentatori delle estetiche contemporanee suonino altrettanto politicamente corrette, insofferenti come siamo diventati a qualsiasi forma di non-diversità, ovvero di “identità” intesa -anche ma non solo- come condizione di ciò che è “identico”.
Una constatazione non troppo dissimile deve aver fatto brillare l’idea che a un anno dalla sua discesa in campo ha vinto il premio
Designer of the Future al Design Miami/Basel 2006. La chiave della trovata, intelligente e meritoria, sta nella messa a punto di un modello di business che era nell’aria, che andava fatto e che invero non si capisce perché non si sia coagulato prima.
È già da un po’ che il design, pur nella prolissa effervescenza dei fenotipi, fiorisce sotto un cielo diviso in due: la volta del design pensato per fare numeri, e la volta di ciò che con una felice espressione dello stesso Willis potremmo definire “design puro”. In un simile scenario, più fluido che schizofrenico, a Established & Sons hanno pensato bene di non votarsi anima o corpo a una delle due cause ma di dedicarsi anima e corpo a tutte e due, modellando produzione e galleria sul profilo più plastico, scafato e inafferrabile della realtà contemporanea. A Established & Sons produzione, promozione, passaggio in galleria e vendita seguono due canali paralleli. Da un lato quello che nel mondo della moda sarebbe il
prêt-à-porter, concepito per essere commercializzato a prezzi accessibili (senza che questo vada a detrimento della qualità, ché la sfida storica del design fu e in parte è ancora quella di coniugare quantità e qualità). Dall’altro l’
alta moda, ovvero il design puro, in cui hanno agio di manifestarsi pezzi più o meno unici, più o meno artistoidi, più o meno ibridi, transitori, sperimentali, insomma tutta quella folta etnia che affolla i Satelliti di Milano, i 100% East di Londra, le mostre auto-allestite, i vuoti fra le maglie della critica. Certo ad alti livelli l’agitazione di queste molecole creative è più sorvegliata (e, sul singolo pezzo, redditizia). È a questa quota che l’acquisto del design di alta gamma si fonde oggi con il collezionismo d’arte.
Come l’arte contemporanea si è emancipata dal destino unico della rappresentazione, così il design postmoderno si è liberato dal voto monomaniacale alla funzione. E se da un lato rimane invadente e rassicurante il design concepito per vendere, dall’altro cresce e si nutre della propria irrefrenabile esplosione il design che nasce come momento di riflessione (= pratica) artistica su oggetti intesi non tanto come “prodotti” quanto come “parole”, segni appartenenti a uno degli innumerabili linguaggi-sistemi (accanto e in compenetrazione con cinema, pubblicità, moda, lavoro, trasporti, discorsi, sentimenti, comportamenti, retoriche ecc.) all’interno dei quali vivono i corpi e le sensibilità degli abitanti della contemporaneità.
Ma forse c’è qualcosa di più. Questa definizione, design puro, sembra mettere in campo in maniera apparentemente incolpevole anche l’idea di un design impuro, ovvero di un design applicato accanto a un design non-applicato. Se nella modernità solida toccò al design essere definito “arte applicata”, oggi, nella modernità liquida, è forse l’arte contemporanea a scivolare surrettiziamente sotto la definizione di “design puro”, ove sul design propriamente detto (quello degli oggetti d’uso pensati -non è così scontato- per essere usati) rifluirebbe il ruolo di “design applicato”. Va da sé che in un simile scenario gli interventi linguistici sugli oggetti, sul genere Satellite ecc., verrebbero ascritti al design puro, cioè all’arte.
Non stupisca questo azzardo certamente troppo classificatorio. Il “design” è oggi un atteggiamento, un sentire che permea il nostro peculiare modo di far fronte alla contingenza di un’esistenza che si caratterizza per l’instabilità di qualsiasi a priori, l’ambiguità di qualsiasi “senso”, il rovesciamento di qualsiasi presupposto che si pretenda come duraturo e che creda, stolto, di poter dare forma salda al nostro “essere gettati” (come direbbe Heidegger) nella traboccante inquietudine del mondo post-reale.