Il parallelismo tra design e biologia descrive efficacemente la progettazione nei primi due decenni di questo millennio. Gran parte degli artefatti concepiti in quel periodo può essere riletta secondo concetti-metafora riconducibili alla sfera di una naturalità sia spontanea che manipolata e, più precisamente, all’ambito della genetica. Prodotti e artefatti hanno iniziato a configurarsi come entità ibride, in mutazione, ripensate nel loro stesso DNA attraverso le pratiche del contagio e della contaminazione.
Non sempre il progresso tecnologico – mi riferisco soprattutto al continuo affinamento del digitale e alla sua penetrazione nel tessuto delle “cose” – ha condizionato la loro identità . Spesso il ragionamento ha insistito sulle questioni tipologiche e comportamentali in vista di nuovi strumenti dedicati alla nostra vita quotidiana o, all’estremo opposto, allo scardinamento delle regole del design (prima fra tutte: forma=funzione).
Ciò è avvenuto – e sta ancora accadendo lungo un tracciato ancora molto riconoscibile – senza quelle cariche dinamitarde che avevano caratterizzato la fase “classica” del design, deputato a fornire delle risposte alle istanze di una società in continua trasformazione (nei consumi, negli stili di vita). Il tratto distintivo del nuovo design è quello della trasversalità : un individuo, più o meno tecnico, scaturisce da incroci e da intersezioni estranei all’idea magnifica e progressiva del progetto modernista. Raramente vi è innovazione come puro superamento dell’esistente. Quando quest’ultimo non è soggetto a perfezionamenti, allora diviene materia da taglia-e-incolla.
Ogni artefatto non è uguale all’altro perché risponde a un’esigenza funzionale molto precisa, spesso minuscola, solitamente espressa tra le pieghe della nostra quotidianità . Ma al tempo stesso la somiglianza è illimitata, difficilmente classificabile, a causa della continua migrazione, in orizzontale, di soluzioni formali, materiali, prestazioni.
La progettualità d’inizio millennio possiede un andamento “fluido”. E rispecchia, sul piano concettuale e operativo, le formulazioni di Bauman sulla civiltà “liquida”, tuttavia influendo in minima parte sulla staticità dei nostri comportamenti. Eppure quell’approccio, improntato all’idea di un design virale, infettivo, contaminato, rappresenta oggi la scheda-madre allo scenario pandemico che stiamo drammaticamente vivendo, dove proprio viralità , infezione e contaminazione sono una realtà sociale a livello planetario.
Insomma, con uno sfalsamento di circa due decenni, il design ha estetizzato quella che sarebbe poi diventata, nel 2020, una vera e propria catastrofe storica.
La tentazione di scivolare in discorsi predittivi e profetici è subito presente. Innanzitutto, in queste settimane inquietanti, non sappiamo se realmente “tutto andrà bene” o se “nulla sarà come prima”. Cioè se prevarrà il sentimento pop che dilaga sui social o gli scenari tratteggiati dagli analisti economici (e non solo).
L’unica certezza è il crollo quantitativo del mondo delle merci e dei servizi, non per carenza di domanda ma per la paralisi economica di queste settimane, che impedirà a gran parte del sistema-impresa di tornare operativo e in equilibrio.
Si può tuttavia isolare una fenomenologia che parte proprio dalla condizione dell’emergenza, che genera necessità urgenti e irrinunciabili, soprattutto sul fronte merceologico: mascherine, disinfettanti, e altro. In breve, il tandem progetto- produzione è chiamato a fornire risposte tempestive tanto in termini creativi che fisici. Ma quella flessibilità , che vede nella mutevolezza e nella mutazione il punto di forza, deve avere trovare riscontro anche in un sistema produttivo pachidermico, irrigidito da macchine, burocrazia e strategie di marketing. Il mondo degli artefatti deve predisporsi a condizioni di détournement e di interferenza più o meno improvvisi.
Un altro tema risiede nella condizione del lockdown e la revisione (forse profonda ) di regole e riti della socialità . L’azzeramento del contatto con gli “altri”, oggi teso tra prescrizione, temerarietà e sospetto, ha riportato la nostra attenzione sulla sfera domestica e nucleare, ampliando la distanza tra quella che Maldonado definì la “semiosfera” – che oggi potrebbe coincidere con il mondo della connessione capillare e simultanea – e la nostra quotidianità più elementare, soprattutto in condizioni di confinamento prolungato.
l design delle superfici di dialogo (nel senso e nel range più allargato) rappresenterà ancora di più un ambito di primissimo piano. Pertanto, da un alto avremo un nucleo domestico sempre più “su misura”, conformato a esigenze tutt’altro che standardizzate e omologate, costituito da soluzioni fluide, mixate a piacimento, che celebrano il senso della “diversità ”. Dall’altro, sull’orbita della immaterialità , un’importanza sempre crescente del servizio, sulla scia di studi avviati addirittura negli anni ’90 e che ora possono trovare un compimento ben più circostanziato.
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