Fioccano in Svezia, a conclusione del glorioso anno del design 2005, esemplari programmi governativi, fondazioni, società, finanziatori e patrocinanti che pianificano e realizzano senza sosta. Dati alla mano. Naturale che in tale tripudio di successi e buoni propositi, e bevuto l’assunto secondo il quale il design, nella fattispecie grafico, pubblicitario (area in cui più velocemente si manifestano cambiamenti), debba provare in futuro a rivestire un ruolo più sociale e meno commerciale -ovvero aiutare a pensare piuttosto che a vendere- sia sorta la ragionevole curiosità di parlare direttamente con chi il design lo fa, con successo e per profitto.
Argomenti di discussione: dove siamo, dove presumibilmente andremo a parare nei prossimi anni. Gli interlocutori: Adam Sprigfeldt e Kalle Gadd, rispettivamente copywriter ed art director di Acne, una delle più interessanti firme svedesi nel campo, curatrice di programmi televisivi, campagne elettorali, di una linea di jeans e di fortunatissime pubblicità. E poi Håkan Smith, art director di Pool, compagnia più discreta della prima ma totalmente votata all’interattività, le cui brillanti idee sono state più volte premiate dalla stampa specialistica svedese.
Facile trovare un comune punto di partenza: i mezzi di comunicazione stanno cambiando: “la pubblicità come la intendiamo ora è un concetto in punto di morte, afferma Håkan, “mentre giochi, media interattivi e lo stesso ambiente in cui viviamo diventeranno canali comunicativi se
Adam e Kalle sfruttano una brillante analogia: ci stiamo spostando dall’emisfero sinistro al destro del cervello, miriamo ad un’età concettuale dove informazione e produzione saranno messe in secondo piano rispetto a valori più ampi, ad una totale rivalutazione del corpo, ad un maggiore coinvolgimento della sfera emozionale, alla ricerca di un supposto significato profondo nascosto dietro i più banali aspetti della quotidianità.
In breve un manifesto di poetica decadente, Håkan, meno baudleriano, ipotizza che si cercherà di individualizzare all’estremo le campagne pubblicitarie, cosicché la scelta del mezzo di comunicazione sia di per sé una scelta di messaggio, e aggiunge, da esperto della cyber realtà, che sarà il computer a far la parte del leone, considerando l’amplissimo spettro di prospettive e soluzioni che da solo può offrire.
Un auspicabile approdo, secondo Adam, è la possibilità di non limitarsi al design nel senso di ciliegina estetica sulla torta del mercato, ma di creare un’esperienza del prodotto target a 360 gradi, in breve un rapporto di collaborazione tra aziende e designer che si espanda a tutti i livelli della produzione e commercializzazione. Dunque che il design non sia solo design, ma che accolga gli stimoli più diversi, e se si parla di successo, perché infondo i suddetti signori non sbagliano un colpo, è proprio qui che si va a ricadere.
Certo, sfrangiandosi i confini del design, perde di consistenza anche l’idea di uno stile nazionale. Parlando di svedesità, non a caso, nessuno osa negare che l’unica cosa che valga la pena menzionare sia un certo diffuso eclettismo, e che linee pure e minimalismo siano ormai un luogo comune culturale piuttosto che un tema condiviso e caratterizzante.
In breve, si nota una certa tendenza a restare nel vago; evidente tuttavia il desiderio di non limitarsi a dare una patinatura cosmetica ad x o y (Kalle); la volontà di cominciare a considerare il pubblico come teste pensanti, se non altro perché parlare ai fessi è terribilmente noioso (Adam); la ricerca di un rapporto elastico con i clienti, in barba all’idea secondo cui creatività e mercato siano termini contraddittori (Håkan).
Infine, consigli per chi volesse tentare la sorte come designer: non assumere inutili atteggiamenti da diva, cercare idee e non stile, non limitare la creatività al tavolo di lavoro.
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silvia colaiacomo
[exibart]
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