Categorie: Design

DESIGN | Think/Thing | Un design piccolo piccolo

di - 14 Febbraio 2013
Sul finire degli anni Novanta si è profilato un filone del design piuttosto insolito rispetto alla tradizione: il disegno di prodotti-attrezzatura finalizzati allo svolgimento di azioni minuscole e capillari che ciascuno di noi compie nella vita quotidiana. I principali interpreti di questo nuovo scenario sono i designer della nuova generazione, che progettano in modo più disinibito e flessibile rispetto alla tradizione stucchevole del Post-modern.

All’epoca del “miracolo italiano”, caratterizzato dall’affermazione del consumo di massa, l’industria rispondeva alle attività domestiche con pochi modelli schematici, ripetibili in larghissima serie per un pubblico tendenzialmente omologato. Al contrario, l’indirizzo progettuale che stiamo considerando è connotato da proposte caleidoscopiche, puntiformi, tradotte solitamente in oggetti di piccole dimensioni, associati a una sola e precisa gestualità.

Nel nuovo paesaggio delle micro-attrezzature quotidiane, i percorsi creativi partono da rigorose analisi comportamentali senza però giungere a interpretazioni univoche, iper-funzionaliste e asettiche. In questo ambito, la capacità del progettista sta anzitutto nell’avventurarsi in sentieri del tutto nuovi, inesplorati, per inventare tipologie di cui mai nessuno si è occupato in precedenza. E poi nel dare delle risposte brillanti, originali e cool, che strizzano l’occhio a tutta una tradizione dadaista e pop.

Il legame tra tipologia e comportamento si rivela quanto mai inscindibile; ma i comportamenti su cui cade l’attenzione del designer sono quelli meno considerati, meno diffusi, fino al punto da soccorrere l’utente in movimenti “di nicchia”.

Usare le bacchette per il cibo cinese, bloccare le carte sulla scrivania, mettere da parte le monetine o pinzare i panni stesi ad asciugare non sono azioni nuove. Sono nuovi i criteri con cui si risponde a quelle sollecitazioni. Molto spesso, è l’ironia a insinuarsi nei linguaggi con cui certe tipologie preesistenti vengono rivisitate. Il progetto agisce sull’immaginario, sulla sperimentazione iconografica, con possibili incursioni nel kitsch e nel gadget. In altri casi, l’innovazione tipologica si avvale di approfondimenti, perfezionamenti, evoluzioni e cambiamenti improvvisi: la pratica della contaminazione consente di rivisitare in chiave trasformativa dei temi assolutamente noti.

Nella tradizione, il progetto di piccoli strumenti per la vita quotidiana nega il processo di caratterizzazione formale che ogni designer normalmente insegue. In altre parole, la nostra vita è affollata di oggetti “anonimi” e pressoché universali, sempre uguali a se stessi, sopravvissuti alle mode e ai cambiamenti dei consumi. Ma alla fine del secolo scorso, il design inizia a insinuarsi nelle aree meno frequentate dalla tradizione razionalista. La progettualità sconfina da competenze universalmente riconosciute per escogitare soluzioni dedicate alla gestione di aspetti assai minuziosi della quotidianità. Affermare che “tutto è design” trova in questo campo una verifica piena, anche grazie a esiti progettuali gustosi: non è necessario possedere un determinato oggetto ma, per un utente orientato al “nuovo”, esso può innescare insoliti rapporti con il prodotto-utensile. Oggi sono sufficienti “invenzioni” di entità esigua per inaugurare un nuovo tema: sono le applicazioni trasversali a creare il nuovo.

Questo indirizzo del design si distacca a gran forza dal design inteso come prodotto altisonante, dotato di un’identità travolgente. È questa nuova categoria progettuale a riconoscere come appropriato ed efficace il termine “minimalismo”, di solito ricondotto a linguaggi di impronta iper-geometrica ed essenzialista: l’attenzione ad aspetti, appunto, “minimi” della gestualità umana, affrontati in sede creativa con un pizzico di estetizzazione. Si pensa così a oggetti democratici, accessibili in senso commerciale e funzionale, diffusi secondo una matrice pluralista.

A questo punto si delinea una contraddizione. Le proposte dei progettisti si collocano nell’area della produzione industrializzata, proprio quando sta riaffiorando l’interesse per la tiratura limitata e per il fatto-a-mano. Ma l’esplorazione e l’interpretazione di quell’infinità di micro-azioni conducono ancora a un pubblico differenziato e frammentato, che non può assorbire quegli oggetti, pur utili, nel circuito della larga distribuzione. Spesso il loro destino è quello di rimanere nella sfera della provocazione e della ricerca. Di conseguenza, anche in questo ambito i prodotti realmente vincenti continuano a essere pochi.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 82. Te l’eri perso? Abbonati!

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