Tutto inizia con un biglietto da visita: lui, designer di belle speranze, potrebbe cavarsela –poco brillantemente- con il solito cartoncino, invece opta per un’altra soluzione. E visto che la fortuna –si sa- aiuta gli audaci, succede che un industriale vedendo quel biglietto da visita decida di… produrlo. Proprio come un oggetto. Perché in effetti di un oggettino si tratta, seppure in perfetto formato business card: uno scenario 3D fustellato che –con un semplice gesto- emerge da una sottilissima lamina di metallo. Provare per credere: lo trovate –per esempio- al Design Museum di Londra, per poco più di 6 pounds.
Per Sam Buxton (Londra 1972; vive a Londra) è andata all’incirca così: dal diploma -come da prassi per ogni creativo londinese- al RCA (Royal College of Art), al primo studio –Design Laboratory- aperto con il designer danese Mathias Bengsston, alle collaborazioni con Habitat, Swarowski, Kenzo, fino alla nomina nella rosa dei finalisti per il prestigioso Designer of the Year Award 2004 indetto dal Design Museum di Londra. In mezzo c’è il fatidico biglietto da visita -realizzato sfruttando un particolare processo chimico in uso nell’industria elettronica- da cui è nata la serie dei Mikroman.
Un’idea semplicissima, con la leggerezza di tocco che hanno qualche volta i colpi di genio: un mondo da collezionare (in Inghilterra è un piccolo cult) stretto in pochi centimetri (tra base, altezza e lo spessore infinitesimale), ridotto all’osso, sottoposto ad una sintesi inesorabile ed implacabile. Un mondo da taschino, appiattito, deformato, lunare, eppure perfettamente –e straordinariamente- prossimo.
Basta guardare il primo soggetto della serie, quello con l’uomo dietro la scrivania (che –tra l’altro- nasceva proprio da una caricatura dello stesso designer al lavoro), icona tragicomica del nostro tempo, o quello con il personaggio ingessato nel letto d’ospedale (con tanto di strutturina, esilissima, che tiene la gamba in trazione), o l’astronauta –quasi ritagliato dalle immagini di repertorio della conquista della Luna- in una improbabile tuta spaziale, a metà strada tra il sogno di bambino e il b-movie di fantascienza. Fino alla città, dove il micromondo dilaga, riprodotto con precisione lenticolare e un certo humour: una metropoli caotica chiusa in una teca di vetro ed esposta appena fuori dal Design Museum, allusiva -in modo sottilmente sinistro- ad un gioco di scatole cinesi.
Miniature o formati macro, poco importa: in questo elogio della superficie smaltata, metallica, riflettente e –ovviamente- flat quel che colpisce è tanto l’esattezza e l’acutezza dei dettagli (tutti gustosissimi), quanto la capacità di calibrare la deformazione, in un certo senso di assestare perfettamente il colpo. Che è dato – e non è poco- con noncuranza ineccepibile. Perché in fin dei conti quel mondo ultrapiatto –che getta un’ombra un tantino inquietante sul nostro- è anche e soprattutto un gioco.
link correlati
www.designmuseum.org
www.mikroworld.com
mariacristina bastante
[exibart]
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