Quando a metà degli anni ‘50
Tomás Maldonado introdusse il corso fondamentale nel piano di studi della più importante scuola di design sorta dopo il Bauhuas, la Scuola di Ulm, l′Europa era da poco uscita dalla Seconda guerra mondiale.
La missione storica a cui il progetto era chiamato consisteva quindi nella ricostruzione (materiale e semiologica) di una nuova società retta dall′ordine e dalla razionalità, che non cadesse più in quel regno del caos e dell′irrazionale che era stata la guerra. Per questo Maldonado, direttore della Scuola, aveva voluto l’introduzione di discipline come la topologia, la teoria della simmetria, la psicologia della percezione, la semiotica: per ancorare su basi “oggettive” la morfogenesi degli oggetti.
Oggi, nelle scuole di design, il basic design, erede naturale del corso fondamentale, che si occupa di comporre forme, equilibri, “gestalt”, non sembra avere la stessa sintonia con la propria epoca che ebbe a suo tempo il corso di Ulm. Se in generale nel XX secolo il design si è orientato alla creazione di nuovi archetipi di oggetti da realizzare “razionalmente” con i mezzi della produzione industriale, nel XXI secolo il design non cerca più la forma duratura e la simmetria concettuale.
Oggi non è più questione di costruire la gestalt, ma di romperla.
Perché ciò che conta nella dilagante progettualità contemporanea risiede meno in ciò che gli oggetti sono che in ciò che
potrebbero essere. Per questo, più che oggetti, siamo circondati da temporanee aggregazioni di segni che vengono costantemente processate e riprocessate. In gioco non è la stabilizzazione formale e funzionale dei flussi della realtà ma la liberazione di possibili forme, non-identità, destinazioni alternative per i segni-fenice che ci fremono attorno.
È questo il nuovo scenario del progetto indagato sperimentalmente nel corso di Semiotica 2008/09 dell′Isia di Faenza, in cui gli studenti-designer sono stati invitati a scongelare l′energia (
energheia) intrappolata negli archetipi cognitivi degli oggetti “finiti” (le opere, gli
erga). I risultati – devianti, inconsapevoli, instabili, già trepidanti verso la prossima trasformazione – sono oggi esposti nella mostra
Zona Errore presso il nucleo culturale DO di Faenza (un ex deposito degli oggetti smarriti, sede dell′Atelier Resign).
Che questa diffusa liberazione di possibilità sia un′esigenza antropologica e non solo un capriccio psicologico lo dimostra il grande numero di persone che oggi fa design, studia design, scrive di design, modifica il design (degli altri). Non riusciamo più a tollerare le cose che sono solo se stesse. Per questo “i giovani” si ubriacano e
fumano con grande naturalezza e puerilità: perché anche questo è un modo per alterare l’identità della realtà, che non è brutta ma solo troppo uguale a se stessa.
E allora bisogna rivoltarli come un guanto, questi segni, sempre e comunque, a
nche quando gli oggetti che ne facciamo non vengono proprio bene, non importa, non siamo alla ricerca dell’oggetto perfetto ma della possibilità che si cela dietro la prossima, tremolante concrezione della nebulosa fisicità delle cose. Per questo il design, inteso come pensiero del possibile, è diventato la cifra interpretativa del nostro tempo, nel quale il fatto che una sedia sia proprio una sedia, i capelli abbiamo proprio quel taglio, un amore sia proprio per quella persona, sono vissuti come altrettanti fatti contingenti che come tali possono essere
anche in un altro modo. Non esiste più l’ontologia; solo la poesia terribile del fremere e del bruciare (altri dice: “progettare”) un combustibile inesauribile.
La miccia è accesa. La vera sfida del progetto non si giocherà più sui cangianti fenotipi del design ma sulle sorgenti genotipiche che innescano e tengono viva la metamorfosi delle cose. Anche i nostri segni, bellissimi, presto saranno altro. E nessuno resterà in lutto per noi.