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design_interviste Design Responsability
Design
Paola Antonelli, direttrice del Dipartimento di Architettura e Design del MoMA New York, s’interroga sul ruolo dei designer nella società contemporanea. Attraverso mostre rivolte a un pubblico eterogeneo. Qualche ipotesi e un paio di progetti che vedranno la luce nei prossimi mesi...
di Italia Rossi
Certo. E sta già accadendo. Accanto al design tradizionale si sta sviluppando un campo specificamente dedicato all’informazione e alla comunicazione. È il design dell’interfaccia e dell’interazione. Infine, ci sono le diverse applicazioni del design alle scienze sociali, economiche e politiche.
Cosa s’intende per slow design?
L’idea di slow design è quella che si riconnette allo slow food. È l’idea dell’azione locale per avere un effetto globale. Significa pensare al design non soltanto per la progettazione di prodotti internazionali come l’iPod. Lo slow design scaturisce dalla comunità. È un design economicamente possibile e sostenibile. Un esempio è Participo, una società londinese che disegna programmi e servizi, in particolare per persone disagiate come gli anziani, i detenuti, gli obesi. E un altro è Architecture for Humanity.
Designer che disegnano programmi e servizi?
I designer hanno la capacità di creare prototipi e testare idee, hanno una mentalità costruttiva e positiva anche quando trattano temi difficili. E al tempo stesso sono in grado di elaborare prodotti eleganti, esteticamente e intellettualmente. È questo che differenzia il design dalla strategia e dalla programmazione.
Sembra ci sia nel design contemporaneo un’attenzione verso nuovi aspetti…
Il design più interessante in questo momento guarda al lato emotivo e umano delle persone. Non si concentra solo sull’aspetto funzionale, aspira a qualcosa che aggiunga significato alla vita e al mondo. Avevo visto tempo fa un progetto di un’asciugatrice dotata di lampada a raggi ultravioletti per riprodurre la luce del sole e dare alle lenzuola il profumo dei panni stesi al sole. È un sogno, non una realtà. Non so se sia fattibile, ma l’ho trovata molto poetica come idea. Personaggi chiave in questo senso sono Tony Dunne e Fiona Raby con i loro studenti al Royal College of Art di Londra e la Design Academy di Eindhoven.
Lavorando con la parte emozionale emergono anche sentimenti negativi: ansie, frustrazioni, paure. Come in una tua precedente mostra al MoMA, Safe…
Sì, è vero. Ma i designer sono sempre positivi. Anche quando presentano aspetti apparentemente negativi lo fanno con ironia, con l’obiettivo di esorcizzare le paure.
Molti di questi designer lavorano nei propri studi e non si propongono al mercato, ma piuttosto a gallerie, e lavorano su temi che partono da emergenze personali. Sembrerebbe una forma d’arte più che design.
Le emergenze sono originariamente personali ma hanno a che fare con i problemi e il futuro del mondo. C’è una differenza fondamentale fra artisti e designer. Un artista può scegliere se mostrare responsabilità verso altri esseri umani o no; invece un designer deve farlo per definizione, altrimenti non è un designer. C’è un lato etico che caratterizza il design che è immediatamente riconoscibile.
E la galleria è il link indispensabile tra designer e persone…
Infatti. E Design and the Elastic Mind è stato un esempio ben riuscito. Il MoMA è uno dei palcoscenici più visibili al mondo, ha un’enorme capacità divulgativa e ha legittimato e incoraggiato i designer che hanno esposto i loro lavori. Il successo della mostra, da questo punto di vista, è stato incredibile. Nonostante la complessità dei temi, l’esposizione è riuscita a trovare lo spazio accessibile sia a persone che non hanno familiarità con internet sia a bambini che conoscono solo quel mondo.
Farete altre mostre su questo tema al MoMA?
In realtà è sempre la stessa mostra che cambia, perché si tratta sempre di presentare quali sono gli spazi del design nel prossimo futuro, sia che lo si faccia con i materiali (Mutant Materials in Contemporary Design) o con la scienza (Design and the Elastic Mind) o con la sicurezza (Safe). In questo momento sto lavorando a una mostra sulla comunicazione (Talk to Me). Il tema questa volta è lo scambio d’idee e d’informazioni tra macchine e persone, tra persone e persone, tra computer e computer. E poi c’è un altro progetto a cui tengo molto: la collaborazione con Adam Bly, fondatore della rivista “Seed”, per rifare Powers of 10, il famoso video di Charles Eames sulle scale e le dimensioni. Lo trovo attualissimo per descrivere quello che considero l’adattamento delle nostre menti all’età telematica. L’elasticità.
articoli correlati
Design and the Elastic Mind
Safe
a cura di italia rossi
la rubrica design è diretta da valia barriello
[exibart]
molto ineressante l’apporto fisiologico sperimentale del design in relazione alla composizione della materia
la scoperta non è nuova è solo quello che io chiamo concetto dell’arte fine a se stessa.
l’arte infatti esprime concetti,sensazioni,anche la costruzione di un opera di qualsiasi genere può dare la sensazione della luce,l’odore “olfatto” solo che abbiamo dimenticato questo modo di concepire l’arte.
anche la musica può essere design,l’architettura e tutte le forme di espressioni possono vivere bene fra di loro scambiando pensieri,concetti, che per cause di forza maggiore la modernità ha strappato
e ha contribuito a fare dimenticare cio che è l’essenza reale dell’arte e anche dell’artista. Io credo che l’artista debba essere utile al proprio paese e deve avere anche la facoltà di diventere mediatore fra
l’opinione pubblica e quello che è il contesto sociale politico di questo paese.
e se questo modo diciamo può essere il frutto di riscoprire questi valori credo che sia una buona cosa
Personalmente credo che i designer siano gli artisti piú vicini alla societá!
Mi pacerebbe esportare quest’articolo in lingua inglese, ma tutto il sito é solo in italiano?