La tua giovane carriera è già caratterizzata da progetti internazionali, come in Giappone, dove lavori nell’ambito del light design, dopo aver vinto in Italia il Matsushita Light Design Competition, e negli Stati Uniti, dove segui l’allestimento della mostra Luxury in living. Queste esperienze come hanno influito sul tuo fare design?
Uno dei miei rimpianti del periodo universitario è quello di non essere andato in Erasmus. Quando ho finito l’università sentivo il bisogno di confrontarmi con “il resto del mondo” e l’esperienza nipponica prima e quella statunitense poi sono state sicuramente molto importanti. Non so se abbiano influito sul mio “fare design”, ma come tutte le esperienze molto forti hanno sicuramente influito sul mio modo d’essere e quindi, per qualche verso, anche sulla mia vita professionale.
Quali sono i tuoi punti di riferimento nel design?
Sono chiaramente affascinato dal lavoro dei grandissimi: Castiglioni, Magistretti, Scarpa, Wright, ma anche Piano, Calatrava e tanti altri che andrebbero inutilmente ad allungare una lista molto ovvia e scontata. Non credo di avere dei punti di riferimento precisi, mi piace tenermi aggiornato: leggo i quotidiani, uso internet, vado alle fiere e a qualche mostra…
Il tuo progettare va in molteplici direzioni. Penso ad esempio al progetto Shop Sharing, ai prototipi di lampade, al packaging per marchi come Ferrero e al citato progetto di urban design.
Penso che la cosa più importante sia come e non cosa si progetta. Facendo esperienza negli studi professionali e adesso come libero professionista è normale che ci si debba misurare con progetti molto diversi tra loro. Non credo di aver sviluppato una vera e propria filosofia progettuale. Mi misuro con progetti diversi perché è il modo più facile per arrivare a pagare l’affitto a fine mese. Ogni progetto fa storia a sé, di solito cerco di trovare nella semplicità e nella funzionalità “quella intuizione” che risolve il “problema”.
Quali sono i tuoi rapporti con le aziende?
Siamo in tanti, il mercato del lavoro è contratto e la nostra professionalità viene spesso molto sottostimata. Non è facile trovare un’azienda disposta a concederti spazio e a riconoscere il tuo operato. C’è chi dice che un numero sempre maggiore di aziende capisce e apprezza il valore aggiunto che il design può conferire ai loro prodotti, ma la cosa non mi convince più di tanto. A me sembra che queste aziende spesso puntino sul designer e non sul design. Mi spiego meglio: la loro è un’operazione di marketing, sempre più spesso la firma e non l’approccio progettuale diventa l’unico valore aggiunto percepito dal mercato. Personalmente cerco di tenermi stretti i pochi clienti che ho e di ampliare il più possibile i miei contatti andando alle fiere e facendo molti concorsi di idee. Un sistema abbastanza efficace per instaurare un primo rapporto con un’azienda.
Andrea Branzi parla “dello stato gassoso, fluttuante, del design contemporaneo”. Cosa pensi della situazione italiana contemporanea?
La società contemporanea ha dilatato e stemperato i confini del concetto di design arrivando a contagiare l’intero spettro della produzione in tutti i sensi. Il “design” è associato a qualsiasi cosa: prodotti, grafica, comunicazione, allestimenti, installazioni artistiche, moda. Oggi tutti possono fare i creativi ed essere “designer”, forse. Abbiamo il product designer, il light designer, l’interior designer, il web designer, il brand designer, lo strategic designer, il fashion designer, il textile designer, il movie designer, il floral designer, il food designer, l’hair-stylist e mi scuso con chi ho sicuramente dimenticato. È una situazione poco limpida ma molto “democratica”, divertente e stimolante.
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a cura di giorgia losio
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