Categorie: Design

design_interviste | Gli spazi del corpo

di - 27 Settembre 2007
Dopo un inizio come designer del gioiello, intorno al 1996, il tuo interesse si sposta vero il fashion e il vintage e, a partire dal 2003, gioiello e fashion si fondono nelle tue caratteristiche creazioni, che uniscono oreficeria e moda. Al centro resta sempre il corpo, come una sorta di infralingua tra le varie espressioni del design…
Il mio interesse per il fashion e il vintage nasce molto prima, quasi in contemporanea col lavoro sui gioielli. Certo, il corpo è sempre stato centrale nel mio lavoro e nella mia ricerca. Spille da puntare sulla spalla, anelli che seguono il movimento delle dita, abiti che si rovesciano e portano la vita alle caviglie e viceversa, bustier dai seni importanti che diventano borse… Il mio lavoro, che siano gioielli o abiti, parte più spesso da un manichino o da me stessa che dal foglio bianco. In entrambi i casi, passo diverso tempo davanti allo specchio, a cercare quali spazi ci sono e quali segni posso fare sul corpo con i gioielli; oppure a provare e riprovare vecchi abiti e a immaginare cosa manca, cosa togliere o cosa aggiungere per farlo rivivere. Alla fine è sempre il corpo che lo porterà in giro.

Nel 2004 la fusione del design del gioiello e con il fashion recycled viene ufficializzata dalla creazione dal marchio Bureau de Chance, contraddistinto da accessori vintage impreziositi con pietre e metalli preziosi. Ci parli di questa esperienza?
Non facevo gioielli da qualche anno -ero completamente assorbita dal fashion- quando un cliente, appassionato di oreficeria, mi commissionò alcuni pezzi. Così, sul mio tavolo di lavoro cominciarono a esserci oltre a vecchi abiti da trasformare anche fili di pietre preziose. Cercavo, come al solito, qualcosa di nuovo da dire. Per prima cosa pensai a parti di abito che potessero diventare piccoli accessori per il corpo. Una collana è qualcosa che sta intorno al collo, quindi anche un foulard o il colletto di una camicia possono essere, anzi sono collane. Da qui polsi-bracciale o colli di camicie o reverse di giacche come girocolli. Poi ho pensato che, per renderli ancora più decisamente collane e bracciali, avrei dovuto aggiungere quel segno che da sempre li rende riconoscibili: le pietre preziose, che sono sempre state una parte importante e integrante di questo genere di accessori. Non volevo però che le pietre entrassero come ricamo, non volevo che la collana fosse il reverse della giacca ricamato con preziosi, volevo che sia le pietre che il reverse fossero collana, nessuno secondario all’altro.

E dal punto di vista del riscontro?
È stato buono sin da subito, prima con la stampa, poi in alcuni negozi di ricerca. In seguito a diversi inviti, partecipazioni televisive, testimonial di successo e la finale nel 2005 alla prima edizione di “Who’s on next?”, il concorso organizzato da Vogue e Alta Roma, arrivò anche la produzione importante. A questo punto i negozi che vendevano e volevano Bureau de Chance divennero molti di più. Oltre ai due showroom di vendita e comunicazione di Milano, se ne aggiunse un altro a Parigi. I pezzi di Bureau, con la produzione e con l’aumento delle richieste, cominciarono a essere confezionati in altri paesi per avere costi molto più bassi, e io ero sempre più spesso in Veneto, dove c’era la produzione e la distribuzione, e a Milano piuttosto che sul mio tavolo di lavoro. I produttori, giustamente, cominciarono a chiedermi che il marchio allargasse il suo campionario con una serie di pezzi facili e a costi contenuti, anche ispirandomi ad accessori o capi di abbigliamento molto venduti di altre griffe. È normale che avvenga quando hai successo, non c’è nulla di strano e lo fanno tutti, ma io non ne sono stata capace, non era più il mio lavoro. Non mi riguardava più. Non lo riconoscevo e così l’ho abbandonato.

Dopo aver studiato oreficeria a Valenza Po, apri un laboratorio orafo in Santa Croce a Firenze, che poi decidi di chiudere. In seguito crei il marchio Bureau de Chance e, come dicevi, lo cedi a un’azienda tessile veneta. Ci sono persone per le quali o sei un designer o sei un non-designer; ci sono corpi in cui lo spirito dell’arte e lo spirito dell’imprenditoria non possono coabitare…

Tra il laboratorio in Santa Croce e Bureau de Chance ci sono state tante altre situazioni incominciate e, nonostante i risultati, a volte eclatanti a volte meno, comunque chiuse. Certo, il segreto del “successo” nel nostro lavoro sta proprio nel far coesistere spirito dell’arte e spirito imprenditoriale. E anche quando, come nel mio caso, il secondo è completamente assente, può non essere un problema, perché è sufficiente affiancarsi a qualcuno che ce l’ha. Ma al di là della difficoltà di trovare il partner giusto, con gli anni ho capito che anche quando lo trovi non finisce lì. Di solito amo cominciare le cose, e quando vedo che ho centrato il colpo tendo a lasciarle, me ne disinteresso. Con Bureau de Chance invece è stato diverso, avrei continuato volentieri, ma solo alle mie condizioni. Non so a quale categoria appartengo, designer o non-designer, per me è solo un dettaglio. E, naturalmente, sta per nascere un nuovo marchio. Sto ancora facendo un primo giro di buyer per capire se c’è interesse. La risposta è buona, ma devo ancora chiarire alcuni dettagli. Prevedo l’uscita per la prossima primavera.

Nel tempo hai ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il primo premio al prestigioso concorso internazionale Jugend Gestaltet di Monaco. Hai partecipato a numerose mostre a Milano, Bologna, Firenze, e in molte altre città. Quanto c’entra tutto questo con il lavoro “vero” del designer?
Le mostre, e quindi la costruzione di pezzi unici, e i concorsi servono a fare ricerca e a sperimentare pezzi nuovi. Sempre, dopo una mostra o un concorso, sono nati capi di abbigliamento o gioielli che, con le giuste modifiche, potevano essere serializzati e quindi venduti su larga scala. È una sorta di verifica che fai su scala più piccola, su un pubblico più scelto, appassionato e di settore. Poi, eventualmente, ti allarghi.

Oggi continui a disegnare con successo fashion recycled per il marchio A.N.G.E.L.O. di Lugo di Ravenna. In questi tempi c’è molta attenzione intorno al fashion recycled, ma anche molta confusione. Cosa si intende esattamente per fashion recycled? E da dove nasce il tuo interesse per questo particolare genere di moda?
Prima di tutto bisogna fare chiarezza tra fashion recycled e customization. Nella customization, verso la quale il mercato si sta spostando sempre più, c’è un intervento vero e proprio di lavoro sartoriale sull’abito che viene fatto quasi ad personam. È un lavoro di modifiche e attualizzazioni fatte solo su quel capo. Il fashion recycled prevede invece la costruzione di una vera e propria collezione di abiti, tutti vintage poi modificati, che abbiano una possibile riproducibilità, anche se non saranno mai esattamente tutti uguali, perché la base sulla quale si vanno a fare le modifiche è sempre diversa. È sufficiente che ci siano alcune caratteristiche comuni. Per esempio, se disegno una borsa realizzata con delle t-shirt, avrò una serie di borse dello stesso formato e dimensione ma non ne avrò mai una uguale all’altra, perché ogni maglietta utilizzata è diversa. La moda consuma e appiattisce, omologa tutto. Il fashion recycled prende il “consumato” della moda, lo trasforma e non lo omologa. È impossibile. E anche molto complesso da realizzare. All’inizio della mia carriera, proprio perché i miei gioielli erano così fortemente studiati sul corpo, avevo la necessità di farli vedere indossati affinché gli altri potessero leggerli correttamente. Quindi modelle e abiti erano i miei supporti preferiti. E in quel periodo cercavo abiti vintage perché volevo qualcosa di non omologato, non volevo la semplicità (non dovevano essere solo dei semplici supporti), ma neanche volevo la riconoscibilità di una griffe. Cosa meglio del vintage, che oltretutto mi permetteva di poter apportare modifiche all’abito senza troppo dispendio di soldi e lavoro?

La situazione attuale è differente?

Oggi è un’altra cosa. O forse è la stessa che si è evoluta. Al di là di tutta una serie di discorsi sul risparmio, sull’ecologia e contro lo spreco che uno potrebbe fare (gli abiti recycled hanno dei costi proibitivi), sono essenzialmente due le cose che continuano a provocare in me l’interesse nei confronti di questo genere di moda. La prima è la progettazione iniziale, la trasformazione di un capo. Questa sorta di traghetto temporale che fa sì che un capo portato venti o quarant’anni fa possa essere indossato oggi, magari con funzioni diverse dalle originali, ma con pari dignità. È molto difficile, molti ci provano e pochissimi ci riescono. La seconda è la parte finale, quando il capo va sul mercato. Continuo a pensare che l’inevitabile diversità di ogni capo dall’altro sia una ricchezza per tutti. Sia per chi lo indossa sia per chi lo vede indossato.

Nelle lezioni sull’Estetica, Hegel dice che il corpo lasciato a sé stesso, “come sensibile puro”, non significa niente. “L’indumento assicura il passaggio dal sensibile al senso”. Il senso sembra quindi fare la sua comparsa come prodotto di una sofisticazione del corpo di cui l’abito e i gioielli sono lo strumento principale, bozzolo di stoffe e simbologie fantastiche che stuzzicano le anatomie, alla ricerca di risvolti impensati in cui appiccare focolai di sensazioni. Forse per questo le persone svestite sembrano sempre più spoglie che nude, più disadorne che “vere”. Design come costruzione di un senso per il corpo…
Umberto Eco diceva anche che “l’abito non fa il monaco, ma lo parla”. Questo è il vero senso del mio lavoro. La scelta di un abito dev’essere personale e parlare di te. E per fare questo il più chiaramente possibile, non devono essere tutti uguali. Anche nei gioielli una delle cose che ho sempre cercato di tenere presente nella mia ricerca è che, nonostante le forme “strane” o “nuove”, chi li indosserà dovrà avere la sensazione di portarli semplicemente, non dovrà sentirsi limitato o fare movimenti artificiali. Non è il pezzo che ti possiede ma tu che lo indossi. Per poter parlare di te liberamente.

Un intervistatore malizioso direbbe che nel recycled si dovrebbe forse parlare di un “riporto” di senso…
Sì, ma insisto. Il fatto che ogni capo sia diverso dall’altro fa sì che la scelta di chi compra sia piena di sensazioni e significati personali. Non esiste una palette di colori nell’abbigliamento recycled, anche se sovratingi ottieni un risultato diverso su ogni capo. “Riporto” il senso, è vero, ma questo senso è solo traghettato, durante il viaggio che lo porta da me ha acquistato molti altri significati. Anche l’usura del tempo porta delle modifiche nei colori e nella trama dei tessuti. Non è più lo stesso comunque, anche senza il mio intervento. Sarai tu che lo scegli a darglielo.

Dal 1998 insegni Fashion Recycled all’ISIA di Faenza. Ci puoi dare il polso della situazione di quanto avviene nella dimensione dei giovani designer? C’è energia? O è vero il cliché che vuole i giovani di oggi apatici, indolenti e incapaci di “accendersi”?
I giovani sono come i vecchi, hanno solo un po’ di anni in meno. Voglio dire che, come per i vecchi, ci sono giovani apatici e indolenti e ci sono quelli che si accendono con pochissimo. In ISIA abbiamo una situazione particolarmente privilegiata, perché gli studenti sono pochi e selezionati e quindi in linea di massima piuttosto motivati e preparati. Certo, siamo nel primo decennio del secondo millennio, e contrariamente a un secolo fa c’è molto meno fermento e più confusione, e loro la assorbono tutta. C’è un’evidente e sempre più consolidata tendenza a formare dei giovani designer con molteplici capacità. Non più specializzati in qualcosa ma capaci di fare un po’ di tutto. Anche le aziende di moda attingono sempre più frequentemente da scuole come la nostra piuttosto che da istituti specializzati nella formazione di un esperto del settore.

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A.N.G.E.L.O.

stefano caggiano

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