Nel 2004 la fusione del design del gioiello e con il fashion recycled viene ufficializzata dalla creazione dal marchio Bureau de Chance, contraddistinto da accessori vintage impreziositi con pietre e metalli preziosi. Ci parli di questa esperienza?
Non facevo gioielli da qualche anno -ero completamente assorbita dal fashion- quando un cliente, appassionato di oreficeria, mi commissionò alcuni pezzi. Così, sul mio tavolo di lavoro cominciarono a esserci oltre a vecchi abiti da trasformare anche fili di pietre preziose. Cercavo, come al solito, qualcosa di nuovo da dire. Per prima cosa pensai a parti di abito che potessero diventare piccoli accessori per il corpo. Una collana è qualcosa che sta intorno al collo, quindi anche un foulard o il colletto di una camicia possono essere, anzi sono collane. Da qui polsi-bracciale o colli di camicie o reverse di giacche come girocolli. Poi ho pensato che, per renderli ancora più decisamente collane e bracciali, avrei dovuto aggiungere quel segno che da sempre li rende riconoscibili: le pietre preziose, che sono sempre state una parte importante e integrante di questo genere di accessori. Non volevo però che le pietre entrassero come ricamo, non volevo che la collana fosse il reverse della giacca ricamato con preziosi, volevo che sia le pietre che il reverse fossero collana, nessuno secondario all’altro.
Dopo aver studiato oreficeria a Valenza Po, apri un laboratorio orafo in Santa Croce a Firenze, che poi decidi di chiudere. In seguito crei il marchio Bureau de Chance e, come dicevi, lo cedi a un’azienda tessile veneta. Ci sono persone per le quali o sei un designer o sei un non-designer; ci sono corpi in cui lo spirito dell’arte e lo spirito dell’imprenditoria non possono coabitare…
Nel tempo hai ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il primo premio al prestigioso concorso internazionale Jugend Gestaltet di Monaco. Hai partecipato a numerose mostre a Milano, Bologna, Firenze, e in molte altre città. Quanto c’entra tutto questo con il lavoro “vero” del designer?
Le mostre, e quindi la costruzione di pezzi unici, e i concorsi servono a fare ricerca e a sperimentare pezzi nuovi. Sempre, dopo una mostra o un concorso, sono nati capi di abbigliamento o gioielli che, con le giuste modifiche, potevano essere serializzati e quindi venduti su larga scala. È una sorta di verifica che fai su scala più piccola, su un pubblico più scelto, appassionato e di settore. Poi, eventualmente, ti allarghi.
Oggi continui a disegnare con successo fashion recycled per il marchio A.N.G.E.L.O. di Lugo di Ravenna. In questi tempi c’è molta attenzione intorno al fashion recycled, ma anche molta confusione. Cosa si intende esattamente per fashion recycled? E da dove nasce il tuo interesse per questo particolare genere di moda?
Prima di tutto bisogna fare chiarezza tra fashion recycled e customization. Nella customization, verso la quale il mercato si sta spostando sempre più, c’è un intervento vero e proprio di lavoro sartoriale sull’abito che viene fatto quasi ad personam. È un lavoro di modifiche e attualizzazioni fatte solo su quel capo. Il fashion recycled prevede invece la costruzione di una vera e propria collezione di abiti, tutti vintage poi modificati, che abbiano una possibile riproducibilità, anche se non saranno mai esattamente tutti uguali, perché la base sulla quale si vanno a fare le modifiche è sempre diversa. È sufficiente che ci siano alcune caratteristiche comuni. Per esempio, se disegno una borsa realizzata con delle t-shirt, avrò una serie di borse dello stesso formato e dimensione ma non ne avrò mai una uguale all’altra, perché ogni maglietta utilizzata è diversa. La moda consuma e appiattisce, omologa tutto. Il fashion recycled prende il “consumato” della moda, lo trasforma e non lo omologa. È impossibile. E anche molto complesso da realizzare. All’inizio della mia carriera, proprio perché i miei gioielli erano così fortemente studiati sul corpo, avevo la necessità di farli vedere indossati affinché gli altri potessero leggerli correttamente. Quindi modelle e abiti erano i miei supporti preferiti. E in quel periodo cercavo abiti vintage perché volevo qualcosa di non omologato, non volevo la semplicità (non dovevano essere solo dei semplici supporti), ma neanche volevo la riconoscibilità di una griffe. Cosa meglio del vintage, che oltretutto mi permetteva di poter apportare modifiche all’abito senza troppo dispendio di soldi e lavoro?
La situazione attuale è differente?
Nelle lezioni sull’Estetica, Hegel dice che il corpo lasciato a sé stesso, “come sensibile puro”, non significa niente. “L’indumento assicura il passaggio dal sensibile al senso”. Il senso sembra quindi fare la sua comparsa come prodotto di una sofisticazione del corpo di cui l’abito e i gioielli sono lo strumento principale, bozzolo di stoffe e simbologie fantastiche che stuzzicano le anatomie, alla ricerca di risvolti impensati in cui appiccare focolai di sensazioni. Forse per questo le persone svestite sembrano sempre più spoglie che nude, più disadorne che “vere”. Design come costruzione di un senso per il corpo…
Umberto Eco diceva anche che “l’abito non fa il monaco, ma lo parla”. Questo è il vero senso del mio lavoro. La scelta di un abito dev’essere personale e parlare di te. E per fare questo il più chiaramente possibile, non devono essere tutti uguali. Anche nei gioielli una delle cose che ho sempre cercato di tenere presente nella mia ricerca è che, nonostante le forme “strane” o “nuove”, chi li indosserà dovrà avere la sensazione di portarli semplicemente, non dovrà sentirsi limitato o fare movimenti artificiali. Non è il pezzo che ti possiede ma tu che lo indossi. Per poter parlare di te liberamente.
Un intervistatore malizioso direbbe che nel recycled si dovrebbe forse parlare di un “riporto” di senso…
Sì, ma insisto. Il fatto che ogni capo sia diverso dall’altro fa sì che la scelta di chi compra sia piena di sensazioni e significati personali. Non esiste una palette di colori nell’abbigliamento recycled, anche se sovratingi ottieni un risultato diverso su ogni capo. “Riporto” il senso, è vero, ma questo senso è solo traghettato, durante il viaggio che lo porta da me ha acquistato molti altri significati. Anche l’usura del tempo porta delle modifiche nei colori e nella trama dei tessuti. Non è più lo stesso comunque, anche senza il mio intervento. Sarai tu che lo scegli a darglielo.
Dal 1998 insegni Fashion Recycled all’ISIA di Faenza. Ci puoi dare il polso della situazione di quanto avviene nella dimensione dei giovani designer? C’è energia? O è vero il cliché che vuole i giovani di oggi apatici, indolenti e incapaci di “accendersi”?
I giovani sono come i vecchi, hanno solo un po’ di anni in meno. Voglio dire che, come per i vecchi, ci sono giovani apatici e indolenti e ci sono quelli che si accendono con pochissimo. In ISIA abbiamo una situazione particolarmente privilegiata, perché gli studenti sono pochi e selezionati e quindi in linea di massima piuttosto motivati e preparati. Certo, siamo nel primo decennio del secondo millennio, e contrariamente a un secolo fa c’è molto meno fermento e più confusione, e loro la assorbono tutta. C’è un’evidente e sempre più consolidata tendenza a formare dei giovani designer con molteplici capacità. Non più specializzati in qualcosa ma capaci di fare un po’ di tutto. Anche le aziende di moda attingono sempre più frequentemente da scuole come la nostra piuttosto che da istituti specializzati nella formazione di un esperto del settore.
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A.N.G.E.L.O.
[exibart]
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