Categorie: Design

design_interviste | Il margine di progetto

di - 20 Giugno 2007

I tuoi progetti, sempre mirati, sembrano nati dalla ricerca meticolosa di quella perla rara e rarefatta che è la semplicità. L’uovo di Colombo sembra sempre ovvio dopo che gli altri ci sono arrivati. È come se i tuoi interventi portassero alla luce quello che era sempre stato sotto i nostri occhi, solo che non lo avevamo mai visto…
Ricordo quando, al Politecnico di Milano, Vico Magistretti ci parlò di questo aspetto della progettazione, di quando la gente vedendo alcuni suoi progetti diceva “cosa ci vuole, è così semplice, posso farlo anch’io!”. Pensiero, tra l’altro, dello stesso Munari. Credo che quella lezione abbia rappresentato un bivio molto importante nella mia ricerca progettuale. Poi per la tesi di laurea ho avuto la fortuna di visitare gli studi di alcuni tra i più importanti designer italiani, quelli che vengono generalmente definiti i “grandi maestri” e ho conosciuto il grandissimo Achille Castiglioni. Dico grandissimo perché ricordo con grande piacere il modo gentile e cordiale con cui ci ha accolto nel suo studio milanese, mostrandoci alcuni di quei tesori che sono i suoi progetti. La cosa che mi ha molto colpito è stata la sua semplicità, quella stessa semplicità leggibile nei suoi progetti e per certi versi irripetibile…
Per rispondere alla tua domanda vorrei portare l’esempio di Fel3, un nuovo feltrino caratterizzato dalla presenza di tagli che permettono di ottenere altri feltrini di varie dimensioni all’interno di un unico elemento. Pensare a un prodotto del genere mi ha fatto capire che esiste un “margine di progetto” in tutte le cose che ci circondano, anche in quelle apparentemente più semplici e date per scontate: non avrei mai immaginato di poter progettare un feltrino riuscendo a trovare una soluzione migliorativa rispetto all’esistente. Già, migliorativa, perché altrimenti sarebbe stato inutile tutto il mio lavoro: credo sia importante l’idea di progettare per effettuare un piccolo scatto in avanti, una piccola evoluzione rispetto a quello che ci circonda. In questo fortunato caso credo di esserci riuscito.


Nel miscelatore Onlyone per IB Rubinetterie l’erogazione dell’acqua si attiva inclinando il tubo. Marco Romanelli paragonava quest’oggetto a una risposta progettuale che risolve una situazione “candid camera”, nella quale si rimane spiazzati di fronte a oggetti dalla logica impenetrabile. Questo intervento di scardinamento dell’ottusità di certi oggetti, e quindi dei gesti che ne seguono, sembra una cifra costante del tuo lavoro…
Essenzialità è una parola chiave, non intesa come ricerca di minimalismo ma come volontà di raggiungere la massima efficacia nel modo più semplice e lineare possibile, innanzitutto a livello concettuale e funzionale, quindi a livello estetico. Non cerco mai un “purismo” formale fine a se stesso: la forma nasce sempre in rapporto a scelte operate per ottenere la migliore funzionalità, quindi come conseguenza di esse o, più spesso, sviluppandosi in parallelo al definirsi della funzione, al fine di ottenere un’armonica integrazione tra i due aspetti nell’esito finale. Nel mio lavoro vorrei rispondere a esigenze effettive dell’abitare quotidiano, evitando l’autoimposizione di vincoli tesi a mantenere una “coerenza” apparente nelle forme e nei procedimenti. La coerenza, per me, scaturisce da una libera e costante ricerca di funzionalità e semplicità nel concepire e nel fare. Mi diverte cercare, come dici tu, di scardinare la visione comune dell’oggetto e questo può avvenire anche con interventi minimi. Alla fine, l’evoluzione della specie di un oggetto si concretizza attraverso la trasformazione dell’oggetto stesso e la “selezione naturale” ne determinerà la riuscita o meno. Con OnlyOne ho lavorato nello stesso modo di sempre. Sono soddisfatto del risultato raggiunto e per questo devo ringraziare la mamma di OnlyOne: IB Rubinetterie.

Anche se si sente spesso dire che il design serve a risolvere problemi i tuoi progetti sembrano piuttosto dissolvere problemi, nel senso che anziché processare i dati del problema pare che facciamo il processo al problema stesso, svelandone la natura arbitraria e pregiudiziale…
È meglio essere onesti dicendo che, spesso e volentieri, progettiamo oggetti inutili alla risoluzione dei reali problemi della vita. Sicuramente, con certi interventi, si riesce a ottenere un piccolo miglioramento, ma sono altre le persone che dovrebbero rispondere a questa domanda. Io posso dire che ho imparato a valutare i problemi progettuali in modo distaccato e questo atteggiamento in alcuni casi mi ha permesso di eliminare alcune incongruenze a partire dalla radice. Ricordo che con la lampada Packlight ideata nel lontano 1995 mi sono chiesto: perché progettare un’altra lampada? Oppure quando mi sono trovato a pensare come nascondere il sifone dell’acqua è nato il lavabo H2O, in cui il sifone stesso è il protagonista del progetto: l’elemento solitamente nascosto è invece fatto risaltare.

È nota la tua predilezione per ibridazioni come il tavolo/specchio, il quadro/tavolino, il pouf/aspirapolvere. Il tuo design, e forse il design in generale, sembra attirato dai territori di confine come l’aria dal vuoto. Cosa può nascere fra il tavolo e lo specchio, il quadro e il tavolino, il pouf e l’aspirapolvere?
Tra tavolo e specchio può nascere Mirror Table, tra quadro e poltroncina può nascere Sofàrt, tra pouf e aspirapolvere direi Airpouf. Per me questi incroci apparentemente improbabili rappresentano delle “schegge impazzite” generatrici di soluzioni inedite e ibride, proposte che cercano di rappresentare la mia visione del contemporaneo. Molto spesso la fusione di alcune tipologie deriva dalla volontà di far nascere oggetti che abbiano “caratteristiche favorevoli” nuove, eliminando quelle “meno privilegiate” e creando così una nuova specie: si potrebbe parlare di mutabilità della specie domestica all’interno del mio percorso progettuale.

Le forme create dai Maestri del XX secolo appaiono come tentativi di costruire una qualche “familiarità” con ciò che stava cambiando completamente l’aspetto della realtà materiale: la grande diffusione dei prodotti di serie. Le nuove generazioni di designer sembrano invece adottare l’intimità e la confidenza che hanno con gli oggetti industriali come punto di partenza dal quale ridisegnare una nuova antropologia materiale, come se quella esistente non riuscisse nonostante tutto a “tenere”…
Tutto sta cambiando vorticosamente, ma abbiamo sempre bisogno di oggetti per sederci, per mangiare, per dormire, per divertirci e via dicendo: come prima, come adesso, come in futuro. Sicuramente bisogna riflettere sul rapporto e le relazioni che abbiamo con gli oggetti: guardare al cambiamento e alla trasformazione dei gesti.

Com’era il design ieri, com’è oggi, come sarà in futuro?
In-utile.

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stefano caggiano

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