Siete stati gli ideatori del progetto Nazionale Italiana Design, che sotto la guida di Cristina Morozzi ha chiamato a raccolta molti dei nuovi volti del design italiano con l’intento di “rivendicare l’italianità del design in un momento storico in cui le aziende italiane, pur convinte portabandiera del Made in Italy, tendono a privilegiare i designer stranieri”. Quale bilancio potete fare a due anni dall’esordio?
La Nazionale Italiana Design è nata soprattutto come progetto di comunicazione sfociato poi nella realizzazione della collezione Coincasadesign. La cosa sarebbe stata ancora più interessante se la direzione fosse stata quella di creare una sorta di Droog Design all’italiana. Ma siamo in Italia, appunto, e l’operazione della N.I.D., seppur nata come progetto provocatorio di comunicazione, si è rivelata troppo anti-individualista. “I’m designER than you!”, “No, I’m the designEST!”
Posso affermare che le aziende pretendono moltissimo da un giovane designer italiano, che purtroppo non ha la stessa aura magica di un designer straniero o di un grande maestro. Non sempre il gioco vale la candela, e per questo bisogna invertire le regole del gioco e puntare alle lampadine anziché alle candele.
Forse alludi al fatto che oggi non è più sufficiente produrre, ma bisogna anche “significare”. Sembra che per essere un designer completo occorra avere una propria “filosofia”, meglio se brillante e profonda allo stesso tempo…
Eh già! Però la filosofia ce l’hai o non ce l’hai. A parere mio, se non ce l’hai non vale la pena oggi fare il designer, e comunque non è detto che se ce l’hai ce la puoi fare. Chiunque è in grado di disegnare un bell’oggetto, e il mondo è pieno di oggetti/ostacoli privi di pensieri affascinanti. Anti Designism militante!
Nel design contemporaneo il confine tra prodotto e comunicazione è sempre più sfumato. In questo senso, il vostro lavoro costituisce un caso emblematico di questo modo di fare design, che si pensa prima di tutto come atto di comunicazione. C’è chi parla con le parole, chi con le immagini, e chi con gli oggetti…
Come nell’arte. Altre vie non ne conosco. Il design, inteso in senso classico, è un lavoro vecchio (non un vecchio mestiere).
Il numero di “giovani designer” (che è categoria identitaria e non anagrafica) è in continuo aumento. Sul mercato del progetto e della comunicazione c’è abbastanza lavoro per questo dilagante esercito di creativi che tiene svegli gli oggetti impedendogli di essere solo ciò che sono?
Come dicevo, il mondo è pieno di oggetti/ostacoli e le aziende continuano a produrli. Le imprese naturalmente hanno bisogno di creare e sostenere il mercato, ma il risultato è quello che definisco COMMONism, ovvero un design comune, banale. Chi ha la coscienza per proporre oggetti culturali fa un percorso decisamente diverso rispetto a chi vive e lavora dentro le regole del Designism.
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a cura di stefano caggiano
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