Categorie: Design

design_interviste | La forma segue la comunicazione

di - 28 Febbraio 2008
Da quando siete nati a Vicenza nel 2004 è stato un continuo crescendo di fama, riconoscimenti e progetti. È cambiato qualcosa in questi anni nel modo di essere e di lavorare dei JoeVelluto?
Nati come gruppo di giovani scanzonati sotto il nome di un designer inesistente, poco tempo dopo il debutto iniziale il mistero dell’identità di JoeVelluto è stato svelato. Molti hanno cominciato a parlare “dei” JoeVelluto invece che “di” JoeVelluto. Oggi, a distanza di tempo, posso affermare che la vera identità di questo nome fantomatico risiede in un pensiero formatosi ancora prima della nascita del collettivo. Il progetto apripista risale infatti al 2002 con RosAria (design Andrea Maragno e Sonia Tasca [il terzo membro del gruppo è Simone Polga, n.d.r.]), una corona da rosario usa e getta, vero e proprio oggetto-manifesto di quello che poi è diventato il “vellutismo”. Ora, nel 2008, JoeVelluto è arrivato a una fase di Adesign radicale, in cui la vera identità viene espressa attraverso una negazione del design e, se vogliamo, di JoeVelluto stesso e della sua pluralità. Oggi parliamo al singolare.

Siete stati gli ideatori del progetto Nazionale Italiana Design, che sotto la guida di Cristina Morozzi ha chiamato a raccolta molti dei nuovi volti del design italiano con l’intento di “rivendicare l’italianità del design in un momento storico in cui le aziende italiane, pur convinte portabandiera del Made in Italy, tendono a privilegiare i designer stranieri”. Quale bilancio potete fare a due anni dall’esordio?
La Nazionale Italiana Design è nata soprattutto come progetto di comunicazione sfociato poi nella realizzazione della collezione Coincasadesign. La cosa sarebbe stata ancora più interessante se la direzione fosse stata quella di creare una sorta di Droog Design all’italiana. Ma siamo in Italia, appunto, e l’operazione della N.I.D., seppur nata come progetto provocatorio di comunicazione, si è rivelata troppo anti-individualista. “I’m designER than you!”, “No, I’m the designEST!

Tra le aziende con cui avete lavorato spiccano nomi come Bosa Ceramiche, Coop, F.lli Guzzini, Opos, Pandora Design, oltre alla già menzionata Coin. Qual è oggi il profilo dell’impresa italiana che dialoga con il nuovo design “liquido”?
Posso affermare che le aziende pretendono moltissimo da un giovane designer italiano, che purtroppo non ha la stessa aura magica di un designer straniero o di un grande maestro. Non sempre il gioco vale la candela, e per questo bisogna invertire le regole del gioco e puntare alle lampadine anziché alle candele.

Forse alludi al fatto che oggi non è più sufficiente produrre, ma bisogna anche “significare”. Sembra che per essere un designer completo occorra avere una propria “filosofia”, meglio se brillante e profonda allo stesso tempo…
Eh già! Però la filosofia ce l’hai o non ce l’hai. A parere mio, se non ce l’hai non vale la pena oggi fare il designer, e comunque non è detto che se ce l’hai ce la puoi fare. Chiunque è in grado di disegnare un bell’oggetto, e il mondo è pieno di oggetti/ostacoli privi di pensieri affascinanti. Anti Designism militante!

Nel design contemporaneo il confine tra prodotto e comunicazione è sempre più sfumato. In questo senso, il vostro lavoro costituisce un caso emblematico di questo modo di fare design, che si pensa prima di tutto come atto di comunicazione. C’è chi parla con le parole, chi con le immagini, e chi con gli oggetti…
Come nell’arte. Altre vie non ne conosco. Il design, inteso in senso classico, è un lavoro vecchio (non un vecchio mestiere).
Andrea Maragno - Adesign per Exibart
Il numero di “giovani designer” (che è categoria identitaria e non anagrafica) è in continuo aumento. Sul mercato del progetto e della comunicazione c’è abbastanza lavoro per questo dilagante esercito di creativi che tiene svegli gli oggetti impedendogli di essere solo ciò che sono?

Come dicevo, il mondo è pieno di oggetti/ostacoli e le aziende continuano a produrli. Le imprese naturalmente hanno bisogno di creare e sostenere il mercato, ma il risultato è quello che definisco COMMONism, ovvero un design comune, banale. Chi ha la coscienza per proporre oggetti culturali fa un percorso decisamente diverso rispetto a chi vive e lavora dentro le regole del Designism.

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a cura di stefano caggiano

[exibart]

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