Categorie: Design

design_interviste | La metamorfosi delle cose

di - 11 Settembre 2008
Fin dal nome che vi siete scelti, Controprogetto, la vostra mission suona come un attacco frontale al sistema del design “borghese”. Oggi che l′esperienza della Stecca degli Artigiani, all’interno della quale siete nati nel 2003, è stata fortemente ridimensionata da un discusso piano urbanistico, cosa resta dell′aspetto “politico” che ha animato quel periodo?
Il nostro fare politico si esplica nel quotidiano e nelle pratiche sociali e progettuali che portiamo avanti rispetto alla progettazione degli spazi pubblici. L’esperienza della Stecca è stata di fondamentale importanza nella nostra crescita e formazione, per il suo forte legame con il territorio e per le modalità di lavoro in rete. Restano le pratiche di servizio alla comunità, il laboratorio aperto, la condivisione dei saperi, la progettazione partecipata, la sensibilità sostenibile e la volontà di avere un ruolo attivo nelle trasformazioni della società e del territorio. La Stecca è stata un’importante esperienza nella città di Milano, un tentativo di riqualificazione partecipata in una zona in profonda trasformazione.

Qual è oggi il futuro della Stecca? Quale il ruolo di Controprogetto?
La Stecca è sopravvissuta come rete e come struttura. Al suo interno, Controprogetto continuerà a promuovere attività di servizio legate alla cultura del fare, allo sviluppo di attività imprenditoriali e di ricerca progettuale, al recupero dei materiali, alla riappropriazione, rivitalizzazione e cura degli spazi pubblici. Verrà attrezzato un laboratorio aperto e un magazzino di materiali di recupero a disposizione dei cittadini e delle strutture formative; a disposizione del territorio e di chi volesse intraprendere una propria attività artigianale. Verranno condotti laboratori di progettazione e costruzione partecipata perché nella città tornino a manifestarsi le identità creative dei propri cittadini.

Il riutilizzo e la metamorfosi delle cose sono modalità operative ampiamente recepite dal design contemporaneo. Questo fenomeno s’incontra con il fatto che la creatività è sempre più un tratto antropologico della nostra epoca e sempre meno una pura questione psicologica che si agita nelle menti di alcuni “creativi”. La stessa scelta di cui siete portatori lascia presagire (auspica?) un cambio di paradigma nell′approccio di chi fa design…

Il design in massima parte è un’espressione di un sistema consumistico e degenerante che ci sentiamo di mettere in discussione. Le implicazioni sono molteplici; sicuramente un modo diverso di stare al mondo porta a un modo molto diverso di fare design e di analizzare in maniera critica il sistema nel quale ci troviamo e siamo cresciuti. Il recupero, la sostenibilità, la riduzione dei consumi, la partecipazione sono temi che godono di sempre maggiore ascolto e credito. In questa direzione lavoriamo e speriamo di procedere.

Nel vostro lavoro la materia di cui sono fatti gli oggetti, liberata dalla forme, viene sottoposta a una processualità aperta che non smette di estorcere alla mater (etimo di “materia”, appunto) le sue possibilità alternative…
Nei moduli troviamo la coerenza tra i materiali e le loro diverse storie. Si ricompongono volumi, ricristallizzazioni di atomi di materia di provenienza diversa. Il criterio estetico è nell’unità all’interno della sintesi del molteplice, l’ordine che appare dal disordine. Proviamo grande piacere nel recuperare l’irrecuperabile, il piccolo, il rotto, nel ritrovare il senso del suo essere tangibile e reale. Il rifiuto è un’astrazione illusoria, una rimozione.

La vostra esperienza più entusiasmante, la vostra esperienza più deprimente, la vostra esperienza più dirimente?

Ci ha entusiasmato costruire il parco giochi che abbiamo portato in Kossovo, con poca esperienza, entusiasmo e reale partecipazione e coinvolgimento di molte persone alla sua costruzione. Allo stesso modo ci gratificano i processi di progettazione partecipata. Di deprimente abbiamo avuto la distruzione della Stecca e la fine di alcuni sogni che proiettavamo in quel percorso, e poi qualche lavoro di puro artigianato che non ci corrispondeva e che ha causato incomprensioni con i clienti; a volte il nostro conto in banca, la difficoltà di creare in maniera autonoma il proprio percorso. Forse l’esperienza dirimente per il nostro gruppo è stato proprio uscire dalla dimensione della Stecca, aprirsi in modo nuovo al mondo, costituirsi come società e confrontarsi in maniera diretta con il nostro contesto.

Il vostro approccio al progetto che riscontro ha a livello di committenza? Lavorate più per il pubblico o per il privato?
La nostra attività al momento è divisa in tre settori: progettazione di interni, produzione di oggetti destinati a canali distributivi propri o mediati e progettazione partecipata di spazi pubblici. Gli interni sono commissionati per lo più da privati, che rappresentano anche la principale clientela dei nostri oggetti. Per quanto riguarda l’arredo urbano, ci troviamo a lavorare con amministrazioni comunali.

Per come si stanno mettendo le cose nel mondo dei beni di consumo, il bisogno dell′utente sarà sempre meno quello di avere cose “intatte” e sempre più di mantenere aperta una trasformabilità che costituisce il propellente delle nuove identità evolutive e partecipate, sia delle persone che dei loro oggetti. Vi sentite parte di questa evoluzione? O ci sono aspetti che non vi convincono?
Concordiamo con la necessità di modificare il rapporto fra utenza e oggetti, nel senso di una maggiore espressione individuale nella costruzione del proprio contesto domestico e urbano. Stimolare l’espressione creativa di una persona è forse più importante che vendergli un prodotto: aiuta le persone a migliorarsi e a stupirsi di sé e crea un rapporto di vero e proprio affetto con l’oggetto. Questo tipo di percorso lo verifichiamo attraverso i nostri progetti partecipati e l’esperienza del laboratorio aperto di autocostruzione. Riteniamo però sia un bisogno che non tutti esprimono. Per alcune persone la definizione della propria identità avviene tramite la raccolta di oggetti attraverso cui passa lo scambio tra chi crea e chi riceve, senza che questo privi l’oggetto della percezione del suo valore.

Nella nostra antropologia liquida, in cui il fatto che una sedia sia proprio una sedia è avvertito come un fatto contingente che, come tale, può essere anche in un altro modo, la necessità di trasformazione delle cose sembra legata paradossalmente alla specificazione d′identità degli oggetti: un oggetto che non cambia mai viene percepito come non-autentico, perché amputato del proprio senso…

Il mutamento e l’adattamento sono processi naturali che noi riconosciamo e ricerchiamo nella nostra percezione del mondo. Cambiamenti di senso e nuove prospettive per guardare alle cose rappresentano il meccanismo dello stupore, una delle sensazioni più belle che abbiamo a disposizione. Una sedia e le sue parti possono avere mille altre funzioni, spontanee o elaborate: compito del designer è svelarne alcune potenzialità e fare in modo che l’utente ne trovi altre. L’oggetto va lasciato aperto. Siamo in un periodo in cui probabilmente l’abbondanza ha logorato il senso e qualcuno ha capito che per recuperarlo servono nuovi percorsi e nuovi modi di guardare le cose.

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www.controprogetto.it

a cura di stefano caggiano

[exibart]

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