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design_interviste Politica del design
Design
In che modo il mondo del prodotto può comunicare ideali, paure e aspettative del presente? Qual è la relazione tra design e politica? Ne abbiamo parlato con David Crowley, ricercatore, critico di design e docente al Royal College of Art di Londra...
di Italia Rossi
Penso che l’idea di un design a-politico sia impossibile. Innanzitutto i designer possono dare dei giudizi politici nei loro lavori e i loro progetti possono avere effetti politici, ma sono politiche anche semplici scelte come i materiali da utilizzare, dove e come procurarsi le risorse.
Dai progetti esposti emerge un lato speculativo del design: come coesiste con l’aspetto commerciale?
I due approcci non possono essere divisi in due isole separate: esiste una relazione dinamica e un dialogo. La condizione ideale sarebbe avere designer che lavorano per il mercato ma che sono anche in grado di uscirne per periodi di ricerca.
Gli oggetti realizzati a scopo speculativo (e che spesso rimangono negli studi dei designer) sono più rappresentativi degli oggetti che vengono messi sul mercato?
Un prodotto è una buona rappresentazione dei desideri che le persone hanno o sono state incoraggiate ad avere dal mercato, ma preferisco l’idea che i designer siano effettivamente in grado di ridisegnare il mondo. Se i designer vedessero il proprio ambito professionale determinato solo dal grafico delle vendite sarebbe una tragedia. Quello che trovo ispirante della generazione di Superstudio e Haus Rucker è che la motivazione principale del loro lavoro era immaginare il mondo in un modo differente, attraverso la critica di quello esistente.
Le ricerche speculative hanno un impatto significativo sulla realtà?
Il lavoro di questi designer è anti-commerciale e il loro principale campo d’interesse non è il mercato; quindi, se li giudichiamo attraverso il mercato, sono destinati a perdere. Credo sia piuttosto interessante chiedersi quante persone, dopo aver visto i progetti di Haus Rucker, hanno immaginato il mondo leggermente differente.
Esiste una relazione fra il design contemporaneo e l’immaginario collettivo dei nostri tempi?
Sì, e penso che il design dovrebbe concentrarsi su questo legame, in particolare oggi, ché ci ritroviamo a vivere in un mondo di comunicazioni elettroniche, basato su nuovi materiali e tecnologie. Pensare in termini di sogni astratti può svelare le nostre paure e aspettative. Siamo in un momento bipolare: abbiamo la convinzione che la tecnologia ci possa liberare, che possa rendere il nostro mondo migliore, ma nello stesso tempo siamo preoccupati degli effetti che queste tecnologie possono avere sulle nostre vite. Siamo tecnofili e tecnofobici allo stesso tempo. D’altra parte, quello che ci circonda è fortemente distopico: io sono seduto qui con il mio laptop, il cellulare, la macchina fotografica… tutte cose che hanno migliorato la comunicazione nel mondo. Ma nello stesso momento ci sono guerre in Congo, dove le persone muoiono combattendo per i minerali necessari a costruire le nostre Playstation.
Tutto questo è visibile nel design?
In molti casi sì. C’è un progetto di Mathieu Lehanneur, ad esempio, un oggetto la cui funzione è eliminare le plastiche tossiche presenti nell’ambiente e purificare l’aria. È un oggetto elegante, tecnologico e naturale, con belle piante al suo interno, ma poi la sua funzione è salvarci dalla nostra stessa modernità. Descrive esattamente il momento in cui viviamo.
Qual è il futuro del design?
Penso che il design abbia certamente ancora un futuro commerciale e corporativo. Avremo comunque bisogno di designer per produrre beni e prodotti, ma stanno cominciando a emergere campi alternativi, che esplorano nuove possibilità professionali e mettono in discussione cosa significhi essere designer. Forse domani sarà una sorta di ricercatore sociale, qualcuno capace di processare idee e informazioni e riportarle nel mondo in una forma in cui il mondo non lo immaginerebbe.
Ma è vero che il design è meno critico dell’architettura?
Penso che il sistema che ruota intorno al design non sia molto sofisticato: c’è una sorta di cultura commerciale e promozionale del design, mentre ciò di cui abbiamo bisogno è una capacità riflessiva. Questo è quel che sta accadendo in architettura, dove la pratica professionale si combina con la scrittura. Ed è davvero difficile trovare lo stesso approccio nei designer.
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la rubrica design è diretta da valia barriello
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