Tutto è cominciato nel 2007 con un leggero ponte in legno,
sospeso nell’aria, sopra la scalinata principale della Triennale, che
inaugurava il primo museo italiano dedicato al design. Da allora è partita la
scommessa di offrire ogni anno un modo diverso di leggere il disegno
industriale. L’impresa viene affidata di volta in volta a esperti, curatori,
designer che possano raccontare quale mondo particolare ruota intorno agli
oggetti.
Comincia Andrea Branzi insieme a Italo Rota, con una narrazione singolare su Le
ossessioni del design italiano. Gli oggetti in mostra, tra penombre e installazioni
multimediali, oltre a spiegarci il design delineano chiaramente l’humus
culturale in cui questa disciplina è immersa. Tra ripetizioni ossessive di
oggetti, come l’imbuto-pinocchio di Giovannoni, che sorride sornione come in uno
dei migliori film di Tim Burton, si scoprono il tormento e l’estasi del design.
Prosegue sempre Branzi, ma accompagnato da Antonio
Citterio, con un
regime e una storia completamente differenti: un allestimento minimalista,
luminoso e total white riporta alla luce la produzione seriale e i pezzi unici
in Serie e Fuoriserie. Gli oggetti divisi in categorie spiegano quali meccanismi di
produzione si nascondano dietro l’arte.
Siamo al 2010, a oggi, e tocca ad Alessandro Mendini continuare la staffetta. E gli
elementi che si riescono a scorgere, ancor prima di oltrepassare il ponte,
lasciano già con il fiato sospeso: una grande piscina in cui sono immersi
insieme oggetti visionari che richiamano le atmosfere di Giorgio de Chirico, da una riproduzione del David di Michelangelo a una scarpa gigante di Salvatore
Ferragamo.
Mendini stesso spiega la sua selezione: “Ho scelto
oggetti interiori, ho escluso le vere e proprie icone del design, e ho
preferito cercare oggetti ai quali appartenga una forte componente
antropologica. Sono cose rovinate, contagiate, animate e usurate dalla vita
parallela dell’uomo. Questi sono gli oggetti che, per omologia con la nostra
vita quotidiana, nascono crescono e muoiono; seguendo una curva a campana, un
ciclo che ha un picco nel centro e che poi decresce verso la fine. Verso cioè
il termine del loro utilizzo o della loro messa in scena. A me piace far luce
sul perché degli oggetti e sul loro romanzo, scoprirne l’aspetto letterario.
Ogni persona, vivendo, crea un proprio romanzo. È nelle storie, nei racconti
che ciascuno va in cerca dei nomi e delle relazioni con le cose che ha attorno.
La narrazione è una cornice linguistica che fa parte della vita degli oggetti;
spesso è tra di loro che essi instaurano continui romanzi”.
Ed è proprio cercando il nesso di un romanzo, quasi epico
come l’Ulisse
di Joyce, che si prosegue la visita tra gli oltre 800 oggetti selezionati da
Mendini: “In mostra gli oggetti sono disposti a flipper. Amo il
cortocircuito che nasce tra le cose, quel non-sense tanto apparentemente quanto
improvvisamente spontaneo che si crea tra loro. In Triennale ho ammaestrato con
questo criterio ben 800 pezzi, tra miniature e riproduzioni ingigantite”. E
tra i prodotti veri e propri di design si scorgono anche oggetti emozionali: “Ho
voluto e cercato che ciascun oggetto emanasse chiaramente la propria
appartenenza all’Italia. Io amo molto il ‘phaselus’ di Catullo, progetto
inserito in miniatura come primo manufatto del percorso. Ritengo infatti che
Catullo sia il primo, vero critico di design della storia. Catullo, attraverso
il conferimento del nome, dona alla barca la parola, dandole un’anima che
addirittura la mette in dialogo con se stessa”.
L’anima degli oggetti, che il curatore scorge, è la
caratteristica che conferisce una vita propria alle cose: “Io vedo gli
oggetti non come un tipo di usato; a me interessa il loro adoperato. Per
esempio, tutti immaginano che per una rassegna di design di questo genere non
sarebbe mai dovuta mancare una Lettera22 di Olivetti. Io però ho trovato la
Lettera22 appartenuta a Montanelli, la stessa, originale macchina da scrivere
che lo ha accompagnato a lungo; e me la sono fatta prestare per la Triennale”.
Il percorso si
conclude con quindici Torri di Babele realizzate per l’occasione da altrettanti
designer scelti da Mendini. Perché, spiega il maestro, “sono sempre
stato sulle tracce delle capacità del design di trasformarsi in aberrazione
dimensionale e di quella sua facilità di diventare tanto sineddoche quanto
metonimia (di quella parte cioè che manca del e dal proprio tutto)”.
A romanzo concluso, si riesce a
rispondere alla domanda che pone la mostra: “Quali cose siamo?”. Come dice
Mendini: “Noi
siamo cose tra le cose”.
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*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 65. Te l’eri perso? Abbonati!
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