Pensare senza fine (1994) è un disegno tracciato con l’inchiostro di una Trattopen (strumento popolare eletto dall’autore come perfetto-insostituibile), in cui è racchiusa la sintesi di un concetto. Un’apertura verso il mondo, alla ricerca di input da metabolizzare, interpretare e restituire alla collettività.
È la tappa conclusiva del percorso dell’antologica dedicata ad
Alessandro Mendini (Milano, 1931), ospitata nel complesso dell’Ara Pacis, che si conferma – dopo le precedenti mostre su
Valentino,
Prouvé e
Munari – sede ideale per mostre di design e moda.
“
Mi interessano i nodi più delicati della creatività individuale e collettiva, l’azione di montaggio e smontaggio di tali meccanismi”, scrive Mendini, “
che mi inducono a formulare degli slogan: robot sentimentale, design banale, architettura ermafrodita, cosmesi universale, artigianato informatico, design pittorico eccetera. Progetto delle ‘cose’ come messaggi sfuggenti, dove determinanti risultano certo il segno, la decorazione, il colore; ma anche la disponibilità errabonda della loro fragilità e indeterminatezza”.
L’architetto sconfina nell’artista, dichiaratamente sensibile a certe soluzioni di Bauhaus,
Futurismo e Costruttivismo. Arte come design, moda, grafica, performance, con uno sguardo rivolto sempre alla teoria e l’altro alla pratica (Mendini è stato per anni il direttore delle riviste “Casabella”, “Domus” e “Modo”).
Attento a queste variabili nel processo artistico dell’architetto milanese, il curatore Beppe Finessi ha scelto di procedere organizzando lo spazio della “cripta” in sezioni che hanno in comune il termine “progettare”. Progettare pensieri, orizzonti, stanze e corpi.
Che si tratti di un esercito di cavatappi dalle forme antropomorfe,
Alessandro M. nella versione maschile e
Anna G. in quella femminile, di una caffettiera,
Oggetto banale, che indossa l’abito lungo, del sassofono
Alessofono o della celebre
Poltrona di Proust, coniugazione di forma barocca e texture
pointilliste e, aumentando la scala di misura, di edifici come l’olandese Groningen Museum (firmato insieme al fratello
Francesco, socio dell’Atelier Mendini), c’è sempre una componente giocosa, coloratissima e ironica.
Non a caso, la nona delle
Regole di progettazione stilate dallo stesso Mendini nel 1984 recita: “
Fare oggetti calmi, poetici, introversi, un poco autoironici”. L’autoironia, in particolare, è una qualità irrinunciabile per Mendini, che si ritrae ora in abito di Arlecchino, ora con le sembianze di un drago-architetto: strana creatura con la testa da designer, le mani da artigiano, il petto da manager, il corpo da architetto, la pancia da prete, i piedi da artista, le gambe da grafico e la coda da poeta.
In questa complessa esposizione, che invita a riflettere anche sul tema opera unica/produzione seriale, è interessante ripercorrere, oltre che le tappe cronologiche dell’attività di Mendini, l’esplosione creativa di “
un pensiero che si rigenera”, prendendo in prestito le parole del curatore.