Una palla rossa in una stanza buia è ancora rossa? Anche se può non sembrare, in questa domanda ne va, per dirla con i termini pomposi di Heidegger, dell’essenza del design. L’essenza della tecnica non è tecnica, ammoniva mestamente il filosofo tedesco dal suo chalet nella Foresta Nera. L’essenza del design non è design-ata, o design-abile, gli facciamo (facile) eco noi dal nostro mondo globalizzato.
E tuttavia la domanda resta inevasa: cosa c’entra col design una non-mostra nella quale un non-vedente guida un gruppo di vedenti che non si sono mai visti prima attraverso una serie di ambienti immersi nell’oscurità più completa? È quanto succede all’Istituto dei Ciechi di Milano, che propone una mostra molto particolare, nella quale non c’è letteralmente niente da vedere e che proprio per questo riesce a fare ciò che molte mostre non riescono a realizzare. Un’incisione a fondo del nostro sentire. Dalla prima edizione a Francoforte nel 1988, nata da un’idea di Andreas Heinecke, dopo aver toccato 100 città in 17 paesi del mondo tra Europa, Canada, Israele, Messico, Giappone, Brasile, e accolto oltre 4 milioni di visitatori, Dialogo nel buio approda all’Istituto dei Ciechi di Milano.
Ma torniamo alla palla rossa. La palla posta in una stanza buia, verrebbe da dire, è in sé rossa, solo che non la possiamo vedere. Il buio sarebbe uno schermo, quindi, una cortina che ci impedisce di vedere la realtà sostanziale della palla, che in sé è pur sempre rossa. Tuttavia, se è vero che, dal punto di vista fisico, i colori non sono altro che rifrazioni luminose, la “pasta” di cui sono fatti rossi, gialli e bruni è sempre e solo una: la luce. Dove non c’è luce quindi non c’è colore. E allora, all’interno di una stanza buia la palla rossa non è più rossa, invero, non è di nessun colore, la dimensione cromatica è letteralmente amputata dall’oggetto palla.
Ora, sperimentare quattro ambienti (il parco, la gita in barca, la città, il bar) così come ci viene proposto in Dialogo nel buio, completamente immersi nell’oscurità, significa trovarsi all’interno di un apparato percettivo –il proprio– completamente alterato. È dai tempi della psicologia della Gestalt che sappiamo come la percezione non sia una semplice fotocopia della realtà esterna ma un’azione che attivamente struttura il percepito. Ed è proprio su questi presupposti che è possibile capire cosa c’entri Dialogo nel buio con il design.
L’elemento del design, infatti, non sta tanto nei contenuti della realtà (un oggetto piuttosto che un altro, un tavolo piuttosto che una sedia), quanto nelle forme a priori dell’esperienza che facciamo della realtà, vale a dire il nostro sentire: non ciò che percepiamo, ma come lo percepiamo. Gli oggetti d’uso sono pare integrante delle forme a priori del nostro sentire. Essendo dotati di una funzione, oltre che di una foggia, essi sono veri e propri “arti” del corpo. Si pensi, per fare un esempio in tema, al bastone di cui si avvale il cieco per tastare il mondo, ma anche alla penna che il vedente usa per scrivere, o all’auto guidata dall’automobilista. Ebbene, il cieco non percepisce il bastone come un oggetto del mondo ma attraverso di esso fa esperienza del mondo; mentre scriviamo non pensiamo alla penna bensì a ciò che stiamo scrivendo; quando guidiamo un’automobile non dobbiamo scendere ogni volta per misurare la larghezza di strada e parafango così da vedere se “possiamo passare”, ma usiamo l’auto, la penna, il bastone esattamente come mani e braccia. Senza conoscerne il meccanismo, e tuttavia padroni del loro utilizzo.
È questo la dimensione del “corpo proprio” che Merleau-Ponty riscopre ancora pulsante al di sotto dell’uomo cartesiano astrattamente scisso in una res cogitans e in una res extensa, quel corpo ridotto a semplice organismo anatomico che abbiamo ereditato dalla tradizione moderna, e che, completamene ciechi di fronte alla reale fenomenologia della percezione, ci rappresentiamo, sempre inadeguatamente.
Perché il corpo proprio trascende costitutivamente i limiti meramente fisici della propria individuazione, non è res extensa, il corpo giunge là dove arrivano i sensi: fino a un metro con il tatto, a qualche chilometro con la vista, così vicino da inglobare le cose con il gusto.
Gli oggetti d’uso non sono “cose” nel mondo ma parti del corpo che dal punto visita fenomenico godono dello stesso statuto di gambe e braccia, sono “prese” costitutivamente mobilitate su un mondo. Le prese del corpo sul mondo sono le sue “abitudini”, che non presentano soluzione di continuità con la forma dei suoi “abiti” e del suo “abitare”. Sono tutti oggetti d’uso. Il corpo proprio è l’elemento del design, il sentire è la dimensione in cui il design esiste in quanto sempre ulteriore modulazione di quel sensorio comunque articolato che è il corpo. Proporre design, plasmare un nuovo modo di sedersi, annettere un mouse a una mano, tagliare via il visibile, sono altrettanti modi di proporre esplorazioni/creazioni di possibili sensi.
Anche se la mostra-esperienza Dialogo nel buio non è esente da alcune ingenuità (la finta gita in barca è disarmante), l’originalità dell’experience design che vi si trova giocoforza coinvolto risulta molto più in- de- per -tras- formativo di tanto ennesimo “nuovo design” che ancora oggi sembra avere cartucce di marketing da sparare.
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Istituto dei Ciechi di Milano
Sito ufficiale Dialogo nel buio
Sito italiano Dialogo nel buio
stefano caggiano
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