Per
Paolo Ulian (Massa, 1961; vive a Milano e
Massa) ogni
cosa esposta in Triennale è solo la fine di un’altra invenzione. Ogni progetto (o
prototipo che sia) è una nuova interpretazione positiva del vuoto.
Osservando i suoi trenta progetti,
manufatti apparenti allestiti sotto l’egida di
Enzo Mari, è quasi d’obbligo citare un
saggio di
Natalja Goncarova. Un passaggio che descrive il concetto di “
sacro mestiere”:
“
Il paradiso del lavoro”
, riporta la pittrice russa,
“
è il mio paradiso, che, in
quanto paradiso, naturalmente qui non mi è concesso. Nel vuoto, nel silenzio,
fin dal mattino. Il paradiso è prima di tutto un luogo vuoto. Sia pure
spazioso, spazioso. Tranquillo. Tranquillo e luminoso. Soltanto il vuoto non
impone, non elimina, non esclude nulla. Perché tutto possa essere, è necessario
il niente. Il tutto non consente il qualcosa. Così come il potrebbe essere non
consente l’essere”
.Ebbene, il lavoro manuale
di Ulian restituisce alla forma e
alla funzione dell’oggetto di design esattamente gli elementi di questa
citazione. Ulian, fra sedie che si incastrano, vasi di cartone, ciotole di
bis-cotto e biscottini da Nutella, restituisce a materia e a superfici la formula
rituale dell’anteriorità. Una versione del processo di progetto, di tipo
aprioristico, limpido, “
naturale”
(come la chiama lo stesso designer); un’andatura che fa emergere in
qualsiasi oggetto un’esatta qualità di rispetto del vuoto.
Per Ulian, e questo nella piccola
mostra allestita in suo onore è molto evidente, lo spazio d’eccezione che
precede un buon lavoro deve continuare a rilasciare l’ispirazione dalla quale
proviene (ad esempio sotto forma di calore o di domesticità dei materiali
utilizzati). Diventando norma che non viene esaurita dalla pratica
dell’industrializzazione.
Se dunque
le quattro sezioni che guidano il percorso (
Minimizzare lo scarto,
Reinterpretare oggetti
esistenti,
Contestare lo spreco della discarica,
Fare del design un gioco) sembrerebbero un primo indice di lettura
compresso, rispetto alle modalità immaginative di Paolo Ulian, non ci si lasci
ingannare. In
Tra gioco e discarica si viene infatti messi alla prova da quel che si vede;
cose
di design che,
per mostrarsi nello splendore della loro utilità, dovranno prima lasciare
addosso il vuoto del sorriso.
Ogni
manufatto, prima di dichiarare la propria identità, deve sbriciolarsi (
Una
seconda vita, 2006),
oppure rivelarsi come metallo da ricamo (
Ciotolone, 2009), o ancora illuminarsi come
una cuffia di silicone (
Palombella, 2000), passando per lo stadio di
fiammifero-già-infiammato (
Double match, 2006).
La
cosalità
ulianiana attraversa ogni superficie strabordando. Inutile concludere che le quattro
sezioni scelte da Enzo Mari forse non bastano, com’è logico che sia, a
contenere l’energia reversibile, scindibile e plurimodulare degli oggetti. Si
faccia dunque attenzione a non dimenticarsi, soprattutto, di vedere anche
quello che non c’è (cucce da viaggio, anemoni fatti di penne e cartoline
potabili…).