Spigolosi, irregolari, i suoi edifici violano sistematicamente le leggi della gravità, così come le contorsioni dei suoi oggetti –tavoli, lampade, divani e ultime le borse in lattice per Vuitton– confondono più che rassicurare.
Zaha Hadid (Baghdad, 1950; vive a Londra) non appartiene alla categoria dei progettisti pacati, non vuole suscitare immagini familiari e, soprattutto, non crede alla neutralità come finalità di progetto. I suoi lavori provocano i nostri sensi e inducono curiosità intellettuali, il che è un gran bel risultato. Aggiungete poi che questa ragazza irachena di 57 anni è l’unica donna ad aver vinto il prestigioso Pritkzer Prize, il Nobel dell’architettura, l’unica dea dell’Olimpo –rigorosamente maschile– delle star dell’architettura internazionale, la più giovane; e capirete perché è diventata un’icona. Eppure non è bella, non è simpatica né, come si dice oggi,
fashionable (nonostante i minimali mantelli griffati Yamamoto).
Autoritaria ed eccentrica come i suoi oggetti, Zaha insegna il rigore della bellezza, la conquista dell’armonia, il sapore della meraviglia. A lei il Design Museum di Londra dedica una bella mostra, dove su due piani sono esposti i lavori di architettura e quelli di design, incluse le recenti incursioni nella moda. Emerge in filigrana la sua formazione cosmopolita, dall’infanzia in Iraq agli studi a Londra, presso la prestigiosa Architectural Association.
“L’esperienza del trasferimento” racconta “
fu molto liberatoria. Londra negli anni ‘70 era molto più aperta di oggi. Adesso gli inglesi sono un po’ sciovinisti e misogini, ma allora coglievo soprattutto il loro amore per tutto ciò che non è convenzionale, il che mi ha permesso di fare ciò che desideravo. Certo, se fossi stata un uomo avrei avuto vita più facile”, ammette oggi senza acrimonia, lei che viene dal mondo islamico ed è abituata a combattere il pregiudizio con le unghie della professione, si tratti di una cattedra a Harvard o di un nuovo lavoro a Dubai. I suoi lavori riflettono dunque le insidie e la gloria di un percorso avventuroso –
“la sua carriera non è stata né facile né tradizionale”, si legge nelle motivazioni del Pritkzer– dove la fatica maggiore è stata convincere i committenti che le sue opere non erano
unbuildable, irrealizzabili, come si diceva.
“Ho sempre pensato che prima o poi i miei progetti si sarebbero realizzati” afferma con una punta di orgoglio “
era molto frustrante vederli solo sulla carta e anche oggi sono in molti a chiedermi ‘ma credi che sia realizzabile?’. Con tutti gli edifici che ho fatto devo ancora dimostrarlo?”La mostra è organizzata per sezioni tematiche:
London,
Unbuilt Works,
Built Works,
Works in progress,
Design. La presenza dei capolavori – il
Vitra Fire Station a Weil am Rhein, il
Phaeno Science Center di Wolfsburg, il
Rosenthal Center for Contemporary Art di Cincinnati, il
BMW Central Building di Lipsia fino al
Maxxi di Roma- viene esaltata dall’impatto visivo dei progetti, tra cui molti italiani, come il grattacielo per la Fiera di Milano, il museo
Betile di Cagliari, la stazione marittima di Salerno o quella ferroviaria di Napoli. Da non perdere nei progetti in corso la
Guangzhou Opera House o la
Dubai Office Tower, edifici la cui forte identità è pensata per dare carattere a città di nuova costruzione, come quelle cinesi o degli Emirati. I piani volanti della Hadid, i suoi volumi tormentati si ritrovano, con maggior efficacia rappresentativa, nei lavori di design, senza dubbio la sezione più sorprendente della mostra.
Qui il candeliere
Vortexx, realizzato nel 2005 per Sawaya&Moroni, cattura l’attenzione dei visitatori, ipnotizzati dai suoi bagliori luminescenti; e mentre il pubblico maschile si attarda sull’avveniristico prototipo a tre ruote della
Zcar per BMW, quello femminile indulge nei candidi modelli della borsa per Vuitton, la
Icone Bag, dove Hadid lavora sul logo incidendolo nella parte inferiore e portandolo fuori in quella superiore. Un trattamento tattile della superficie che diviene brillante e vibrante, come quello dell’
Aqua Table, il tavolo realizzato per Established & Sons, ma anche come le bellissime scenografie e costumi per
Metapolis di Charleroi Danses.
Sorprende Zaha per i contrasti netti che ci impone, per la disinvoltura delle contaminazioni: di ambiti, materiali, tendenze; ma soprattutto per la curiosità che riesce a suscitare, sfuggendo sempre al più mortale dei peccati: la noia. Che la si ami o la si odi, non lascia spazio all’indifferenza. È questa la sua forza e quella dei suoi lavori.