Categorie: Design

design_opinioni | Design 2.0

di - 12 Febbraio 2009
Lo ha scritto Rem Koolhaas, e ha fatto tremare le vene ai polsi di chi si occupa di progettazione. Nel Junkspace, come lui chiama l′antropologia materiale contemporanea, progettare o meno non fa più differenza. Nell′incontro terribile con l′esistenza, l′uomo mette in forma la materia per creare un senso, laddove la vita sarebbe solo caso. Oggi che lo scopo del progetto non è più fissare lo spazio ma mantenerlo mobile, che un oggetto sia fatto bene o male tende a essere sempre più irrilevante: ciò che conta è che cambi e sia di una qualche misura diverso rispetto a se stesso e a ciò che gli sta accanto.
Ma se non nella qualità, dove possiamo scovare il “senso” degli oggetti del XXI secolo?
Cominciamo da Internet. Il web 2.0 è uno stadio della rete caratterizzato da un alto grado di partecipazione del pubblico alla produzione di contenuti. La generazione non professionista di filmati, testi, immagini, musiche, non è solo un′attività a latere, ma l′elemento costitutivo di molti nuovi format e modelli di comunicazione. Questa attitudine alla partecipazione generalizzata sta diventando così forte da andare oltre il web, e investire in toto il modo di sentire gli oggetti da parte delle persone, che li vivono sempre meno come qualcosa di “finito” e sempre più come occasioni per processi creativi partecipati, aperti ed evolutivi.

I segnali in questo senso sono chiari. L′italiano Zooppa per esempio offre un servizio di advertising interamente user generated content. Le aziende lanciano i loro brief agli utenti registrati i quali producono una serie di spot tra cui la comunità vota il vincitore. E che non si tratti di un divertissement da smanettoni lo dimostra il fatto che aziende come Rai, Lastminute.com, Fineco ed Enel hanno già scelto di affidare le loro campagne a Zooppa.
Anche per quanto riguarda il design allo stato solido le cose si stanno muovendo in questa direzione. Nato nell′incubatoio Eindhoven, RedesignMe.com è un servizio di co-produzione di oggetti che mette a disposizione delle aziende il sapere appassionato dei loro stessi clienti, i quali tramite il sito collaborano per migliorare o riprogettare i prodotti commercializzati.
Anche il made in Italy si sta attrezzando per il nuovo secolo. Massimo Mariani, in collaborazione con AedasR&D, ha progettato per Mdf Italia il sistema componibile Vita, una libreria modulare che grazie a un “configuratore” virtuale permette al cliente di generare infinite composizioni, tra le quali il programma si incarica di escludere quelle non tecnicamente accettabili e di fornire una stima del prezzo.

Più avanzato ancora è il progetto Kreaton di Sergio Nava per la neonata azienda milanese NTT Design. Questa “lampada che non esiste”, come recita il claim di Kreaton, è composta da una base in policarbonato trasparente con una lampadina a basso voltaggio sulla quale il fruitore può costruire la lampada che vuole, utilizzando uno o più kit di settantadue piccoli “moduli” forniti in tre misure e cinque colori, in pratica dei mattoncini molto simili ai Lego, anche se il brevetto è originale. Non si tratta solo di “personalizzazione”. Qualunque sia la forma che attribuisce alla lampada, l′utente è il primo a non sentirla come definitiva.
Kreaton
non cerca la composizione migliore ma la modifica ulteriore, la variazione successiva, la diversità protratta. Oggi che la realtà si è fatta liquida, il fatto che una lampada sia proprio una lampada viene avvertito dalle persone come un fatto contingente che come tale può essere anche in un altro modo. Di conseguenza, il valore percepito di un oggetto è sempre più determinato dalla sua evoluzione aperta piuttosto che dal suo permanere identico a se stesso: il “senso” del design del XXI secolo non sta in ciò che un oggetto è, ma in ciò che potrebbe essere.

Si trova qui la risposta alla provocazione di Koolhaas. Perché è vero che qualunque progetto, immerso in un′antropologia liquida, indipendentemente dal fatto che sia pensato bene o male si trasformerà presto in qualcos′altro. Ma è proprio questo il punto: a fare la differenza, oggi, non è più il risultato del processo progettuale ma il processo stesso, determinato dalla partecipazione dell′utente e dall′apertura del prodotto a sempre ulteriori evoluzioni.
Da questa constatazione nasce il programma di ricerca “I futuri del design” avviato da sei mesi all′Isia di Faenza. In uno degli scenari indagati nel programma assistiamo alla diffusione di forme di “upgrading design”, per le quali l′azienda vende il proprio prodotto, per esempio una sedia, e dopo alcuni mesi ne rilascia l′upgrade, consistente nella modifica della stessa sedia in possesso del cliente. Passato altro tempo, l′azienda rilascia un terzo upgrade, che trasforma la sedia in un tavolino, e così via, mantenendo il prodotto aperto e l′evoluzione costante.

Anche nel design di prodotto quindi il coinvolgimento dell′utente nel processo creativo sarà graduale ma ineluttabile. Ad esser percepito come non autentico sarà sempre più l′oggetto che non cambia, e a cui l′utente non può partecipare. Un simile oggetto sarà infatti amputato del proprio senso, così come esso prende forma all′inizio del XXI secolo: aperto, evolutivo e partecipato.

link correlati
www.zooppa.com
www.redesignme.com
www.mdfitalia.it
www.nttdesign.com
www.kreaton.it

stefano caggiano


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 54. Te l’eri perso? Abbonati!

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