Categorie: Design

design_opinioni | Il design salverà il mondo

di - 24 Aprile 2008
Fino al 12 maggio 2008 il MoMA di New York propone la mostra Design and the Elastic Mind, a cura di Paola Antonelli, che indaga attraverso più di duecento oggetti e installazioni il punto d’incontro tra innovazione, estetica e funzionalità. La mostra intende illustrare come la figura del designer stia passando da “progettista di forme [form giver] a interprete fondamentale di una realtà straordinariamente dinamica”.
Questo non è che un sintomo di un ampio cambiamento d’epoca. Tra gli altri segnali in questa direzione ve ne sono alcuni particolarmente “cliccati”, come il Cluetrain Manifesto di David Weinberger, Chris Locke e Doc Searls, in cui si prende atto di come internet, con il suo portato di user-generated-content attitude, abbia cambiato le parole d’ordine del marketing sostituendo alle vecchie metafore della guerra (“colpire il target”, “penetrare il mercato”) nuove metafore legate alla conversazione e alla convivialità. Markets are conversations, è la tesi, ormai ampiamente recepita, di Weinberger. E fare mercato diventa “onorare la conversazione”.
Sta ridiventando lecito, oltre che liberatorio, pronunciare senza ingenuità né imbarazzo una parola preziosa come “felicità”, come fa per esempio Luca De Biase nel suo ultimo libro, Economia della felicità, dedicato al modo in cui le nuove forme di relazionalità del web 2.0, così intrise della dimensione del dono e della ricchezza che deriva dalla gratuità, si stanno riflettendo sull’antropologia materiale e immateriale delle nostre società.
Su questa linea si trova anche Francesco Morace, che nel recente Il senso dell’Italia, presentato lo scorso marzo alla Triennale di Milano, fornisce le “istruzioni per il terzo miracolo economico italiano”. “Il modo migliore per cogliere la specificità della componente creativa in Italia è ragionare sulla diversità che ha assunto in Europa il concetto stesso di creatività: dalla creatività inattuale della Germania, alla creatività teatrale della Spagna, dalla creatività integrata della Francia alla creatività antagonista della Gran Bretagna”. Ciò che contraddistingue la creatività italiana è il suo modo di esprimersi quotidiano e spontaneo. “Associare il gusto per il cibo con quello per la parola e il pensiero creativo […] non è un’operazione arbitraria (e non si dimentichi neppure che il verbo latino sàpere, avere sapore, corrisponde a sapère): in Italia l’essere saporito e l’essere sapiente si identificano, elevando il concetto stesso di gusto che diventa ri-creativo anche perché ricrea le condizioni della felicità ripetuta del quotidiano”.

È un processo che viene da lontano. Il filosofo Umberto Galimberti, nel suo poderoso Psiche e techne (recentemente riproposto da Feltrinelli), spiega come il nichilismo del nostro tempo derivi dal grande sviluppo della tecnica, intesa come insieme articolato e pervasivo di oggetti che non smettono di sommergerci con tool e connessioni ma non sembrano in grado di produrre senso. Il fare tecnico nasce infatti per produrre risultati, non per generare senso. Ma quando l’apparato tecnico cresce come oggi al punto da non essere più una semplice scatola degli attrezzi ma da diventare l’ambiente stesso all’interno del quale viviamo, ci si ritrova nell’impossibilità di pensare -e di sentire– in un modo che non sia “tecnico”, cioè che non sia puramente procedurale ma anche dotato della dimensione del “senso”.
In realtà i primi segnali in questa direzione si ebbero già a cavallo fra Otto e Novecento, quando innovazioni come il telefono, i raggi X, il cinema, l’automobile e l’aeroplano trasformarono radicalmente l’esperienza cognitivo-percettiva (e quindi originariamente sensoriale) della vita quotidiana. Fu allora che un poeta, Giovanni Pascoli, scrisse: “Non posso io certo enumerare le conquiste del secolo decimonono: accenno solo che la folgore, la quale suggerì nei primi tempi l’idea d’una mano invisibile e infinita che tra le nuvole saettasse quaggiù, la folgore, veramente mansuefatta, reca da una parte all’altra della terra la parola umana, la fissa e la riproduce, e già porta, a gara col vapore d’acqua (la nuvola temporalesca asservita agli uomini, col suo carro di vapori e coi suoi cavalli d’elettricità), vertiginosamente per il globo la… infelicità umana”.

Perché la “folgore mansuefatta”, cioè la forza della natura tecnicamente assoggettata all′uomo, porta a spasso per il globo l′infelicità umana? La responsabilità, dice Pascoli, non è della scienza, ma della poesia. “[Sono i poeti che] devono far penetrare nelle nostre coscienze il mondo quale è veramente, quale la scienza l’ha scoperto, diverso, in tante cose, da quel che appariva e appare. […] Chi di noi, pur sapendo di astronomia molto più di me che non ne so nulla, sente di roteare, insieme col piccolo globo opaco, negli spazi silenziosi, nella infinita ombra costellata? Ebbene: è il poeta, è la poesia, che deve saper dare alla coscienza umana questa oscura sensazione, che le manca, anche quando la scienza gliene abbonda”.
Ciò che Pascoli dice del rapporto tra poesia e scienza, che la poesia “è ciò che della scienza fa coscienza”, può essere applicato al rapporto tra design e tecnica. La poesia sta alla scienza come il design sta alla tecnica. Ciò che gli oggetti, le loro prestazioni, la loro invasività, stanno portando nelle nostre vite, è un profondo rimescolamento degli automatismi del pensiero, e della dislocazione psico-somatica dei sentimenti. Per questo il sapere non basta più, e occorre che intervenga il sentire, facendo appello a tutta la ricchezza custodita nella doppia accezione del termine “senso” che si riferisce sia a significato che a sensorialità.

Le innovazioni che mantengono in fibrillazione il nostro vissuto quotidiano sono esplose oltre qualsiasi capacità cognitivo-percettiva. E questa è una ricchezza che apre un’epoca nuova. Ma senza un lavoro di design che agganci il frenetico pullulare di possibilità offerte dagli oggetti al sentire proprio della dimensione umana (fatta di parole, gesti, abbracci, odori, morbidezze, spigolosità), l’uomo rischierebbe di venire fagocitato dalle sue “cose”, perché le genererebbe senza senso; come già avviene nella produzione e nelle abitudini di vita inquinanti. Se, dunque, la tecnica è chiamata a progettare la funzione degli oggetti, il design è chiamato a progettarne il senso. È questa la mission del design del XXI secolo.

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stefano caggiano


Bibliografia:
David Weinberger, Everything is miscellaneous, London 2007
Luca De Biase, Economia della felicità, Milano 2007
Francesco Morace, Il senso dell’Italia, Milano 2008
Umberto Galimberti, Psiche e techne, Milano 1999
Giovanni Pascoli, Prose I, Milano 1956

[exibart]

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