Il pensiero che ci lascia in eredità Jean Baudrillard, autore di oltre cinquanta libri e di una sterminata quantità di articoli, si presenta come una sorta di bacino di raccolta dei tanti smottamenti che hanno interessato la cultura occidentale negli ultimi due secoli.
Dopo il marxismo, il positivismo, l’idealismo, Nietzsche, lo strutturalismo, le due guerre mondiali, Auschwitz, i totalitarismi, il muro del Berlino, il campo del sapere arato dal filosofo francese resta oggi un terreno generoso e intransigente dal quale attingere linfa per ricerche di sociologia, antropologia, filosofia.
Anche la teoria del design deve molto alle idee di Baudrillard, a cominciare dal 1968 quando
Il sistema degli oggetti fece irruzione nell’analitica sociologica tagliando come una lama lo statico schema marxista. Secondo
Il capitale, infatti, la merce è dotata di un valore d’uso e di un valore di scambio, dove il primo costituisce la capacità della merce di rispondere ai bisogni “naturali” dell’uomo, mentre il secondo è solo un valore “artificiale” generato dai rapporti distorti della società capitalistica. Una volta tolto di mezzo (dalla rivoluzione) il valore di scambio, il senso degli oggetti tornerebbe ad essere coerentemente, “verticalmente” determinato dalla funzione.
“Il problema sarebbe allora quello di far emergere una coerenza tra la posizione relativa di un certo oggetto, o insieme di oggetti, sulla scala verticale; e, d’altra parte, il tipo di organizzazione del contesto in cui si trova, e il tipo di atteggiamenti pratici che vi si collegano. Non è sicuro che l’ipotesi della coerenza sia necessariamente verificata: esistono barbarismi e lapsus non solo nel discorso formale, ma anche nel discorso sociale degli oggetti”. [1]
È da intuizioni come questa che fa capolino la fertile idea, poi largamente recepita, di un “linguaggio” degli oggetti, cioè di un uso sociale degli oggetti analogo a quello delle parole, le quali di rado sono utilizzate solo per il loro significato. Con le parole si fanno molte cose: si ordina, si litiga, si conforta, si minaccia, si mente. Con gli oggetti è lo stesso. Come le parole sono usate più per l’effetto generato dal significante che per l’affermazione del significato, così il “senso” degli oggetti dipende molto spesso più dalla forma che dalla funzione.
È in questa fase che Baudrillard giunge a teorizzare quella che resterà un’acquisizione ferma del suo pensiero: l’universale semiotizzazione della vita che si verifica nella società dei consumi e la completa emancipazione del segno dalla realtà. Come per il linguista Saussure il significato delle parole è il risultato di un gioco differenziale tutto interno alla lingua e non di un riferimento diretto alle cose, così per il sociologo Baudrillard i rapporti sociali sono il risultato di un gioco che si risolve interamente all’interno del sistema dei segni. Non vi è più il rapporto tra il segno e la cosa ma solo una relazione tra segno e segno all’interno del codice.
A questo punto non è difficile vedere come il sistema degli oggetti costituisca la realizzazione fisica, quasi “icastica” di quel sistema di segni che per Baudrillard è divenuto l’unica forma di realtà disponibile. È all’interno del parco oggetti che si risolvono tutti quei rapporti che l’uomo ha da sempre avuto con la dimensione “materiale” della vita, i quali, un tempo erano propri del mondo reale, oggi non sono che simulazioni “iperreali” (dall’aspetto più reale del reale) interamente risolte all’interno del codice il quale mette in scena la pantomima di qualunque relazione di “significazione” il consumatore desideri.
Tenendo per ferma questa tesi, il Baudrillard degli anni successivi si spinge oltre, introducendo con il fondamentale
Lo scambio simbolico e la morte (1976) una nozione di “scambio simbolico” ricavata dalla generalizzazione filosofica della pratica del dono/contro-dono studiato in alcune società primitive da Marcel Mauss. Tale pratica prevedeva l’obbligo da parte di chi riceveva un dono di restituire un dono più cospicuo. Riprendendo anche la teoria dell’economia di Georges Bataille, che contrariamente a tutta la tradizione classica non fonda i rapporti di scambio sulla penuria ma sullo spreco, Baudrillard vede nello scambio dei doni l’atto di affermazione esistenziale di un soggetto che attraverso il dono e lo spreco rifiuta la schiavitù nei confronti del “bisogno”, manifestando così la propria capacità, tipicamente umana, di andare oltre l’insensata brutalità delle pulsioni animali alle quali si ridurrebbe in un mondo che non fosse “culturalizzato”.
Se pure lavori successivi come
Le strategie fatali (1983) e
Il Delitto perfetto (1994) tendano ad accentuare di più gli aspetti pessimistici della sua filosofia, attestandosi infine sull’idea che tutti i rapporti di senso si svolgono all’interno dell’iperrealtà generata dal codice, è sulla base della nozione di scambio simbolico che diviene forse possibile una lettura originale del fenomeno del design.
Da dove proviene, infatti, il nostro inesausto accanimento (Baudrillard forse direbbe terapeutico) sugli oggetti per far sì che essi non siano solo quello che sono ma sempre
anche qualcos’altro? Perché un’automobile deve essere
anche un’esperienza di vita, un orologio
anche uno status-symbol, una penna
anche l’appartenenza a un’elite?
L’usanza del dono/contro-dono era un modo per il “primitivo” di dar senso a una realtà che si presentava costitutivamente ambigua, perché il sole che scaldava era lo stesso che portava la siccità, e l’acqua che dissetava era la stessa che inondava. La continua reversibilità simbolica del dono rappresentava un modello per “agganciare” il senso dell’esistenza umana, che è sempre culturale, alla sussistenza in seno a una natura amica/nemica. Attraverso la continua reversibilità lo scambio simbolico
consumava il significato del dono. Il ruolo sociale dell’ambiguità si è poi perduto nella cultura occidentale, la quale da Platone a Hegel ha costruito la propria affermazione sulla
produzione del Significato basata sulla rimozione dell’altro, dell’alternativo, dell’incerto. Solo con la postmodernità, per comprendere la quale Baudrillard ci ha fornito strumenti analitici insostituibili, l’ambiguità riemerge per tornare a dire la sua sul senso delle cose. Il design, in quanto pratica che continuamente rimette in gioco l’identità degli oggetti, costituisce forse una manifestazione di questo ritorno dell’alterità. Da questo punto di vista il ruolo antropologico del design consisterebbe nell’azione di recupero alla quotidianità del simbolico, il quale, come ha ripetuto fino all’ultimo Baudrillard, prima o poi torna sempre a riscuotere il suo debito.
[1] Jean Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, trad. it. di M. Spinella, Mazzotta, Milano 1974, p. 15