Negli ultimi anni il cinema degli effetti speciali è cresciuto enormemente. Si possono individuare almeno cinque filoni appartenenti al genere. Il primo, oggi in calo, è quello dei
disaster movie, incentrati attorno a catastrofi di proporzioni spettacolari, come in
Armageddon e
Deep Impact (film praticamente identici usciti a un paio di mesi di distanza), in cui un asteroide minaccia di colpire la Terra. E quando non è l’onda anomala a sconvolgere New York, è una glaciazione dovuta agli squilibri climatici causati dall′uomo, come avviene in
The Day After Tomorrow. (Ci accorgemmo l’11 settembre di quanto questo cinema ci fosse negli occhi…).
Ha fatto poi la sua comparsa il filone dei super-eroi, basato quasi sempre su personaggi dei fumetti Marvel come
Hulk,
Spiderman,
X-Men,
I fantastici 4. Il terzo filone è esemplificato da pellicole come
Minority Report,
I, Robot e
A.I. Artificial Intelligence, storie che con la scusa di indagare l’umanità delle macchine e la disumanità dell′umano fanno sfilare interni, abiti e scenografie spettacolari. C’è poi il filone epico delle saghe come
Star Wars,
Il signore degli Anelli,
Harry Potter e
Matrix, tra le cui traiettorie carsiche la vicenda aspira ad avere un suo peso, seppur con esiti disomogenei.
Infine, il recente
Transformers, prodotto dal re Mida
Steven Spielberg, inaugura l’ultimo filone in ordine di tempo, ma il primo in quanto a promesse di crescita per i prossimi anni. La riserva immaginifica dalla quale attinge è infatti al momento la più ricca e la meno sfruttata: quella dei robot di cartoni animati come
Goldrake,
Mazinga,
Daitarn 3,
Jeeg Robot, che hanno segnato l’infanzia dei trentenni di oggi.
Ma cosa c’entra il cinema degli effetti speciali con il design? Che questi film siano fatti per essere visti con gli occhi e non la testa è fuor di dubbio: soprattutto, non ne dubitano i produttori e i registi. Ma il fatto che li si vada a vedere comunque, indifferenti all’insostenibile inconcludenza delle vicende narrate, necessita di una spiegazione. Ciò che si va disegnando in questo tipo di cinema sono infatti i nuovi aspetti del mondo. Gli oggetti che popolano i film di fantascienza e l’oggettistica reale non appartengono più a due mondi separati. Questi film producono miscele di immagini, ritmo e animazioni che rappresentano altrettanti ritratti, parziali ma plastici, di un futuro che ci sta addosso. Considerato nel suo insieme, il cinema degli effetti speciali costituisce infatti una palestra antropologica per nuove forme del sentire. Tramite l’esperienza reiterata che ne viene fatta (anche attraverso la pubblicità), prendono forma nuove aspettative. Ed è di queste che si fa carico il design.
Il periodo storico in cui viviamo è in assoluto l’epoca più ricca di mezzi di produzione, ma è anche quella più priva di meta-narrazioni. Il futuro è un’esperienza quotidiana che fa parte del presente, ma non appare più come compatto e condiviso, bensì si presenta come plurivoco e frastagliato. Mentre in epoca moderna progettare significava vedere prima degli altri ciò che tutti sarebbero comunque arrivati a scorgere da sé,
progettare oggi significa
visualizzare altro, nel senso etimologico di fantasticare plasmando attivamente ciò che si visualizza: non di indicare un futuro necessario, si tratta, ma di creare “aspetti” per un futuro che, lasciato a se stesso, ne è privo.
Oggi che non è più la produzione a trascinare la conoscenza, ma la conoscenza a fare da locomotiva alla produzione: il designer si trova di fronte a un cambiamento paradigmatico del proprio ruolo. Il futuro del design è fatto di oggetti che nasceranno da una capacità progettuale non solo immaginaria, ma soprattutto immaginifica. Essi non potranno essere meri collettori di fantasie, ma dovranno porsi come volani per fantasie che l’utente da solo non sarebbe mai riuscito a sognare.
La fantascienza, del resto, non è che una fra le tante palestre per il quotidiano straordinario. Secondo Francesco Morace, presidente del Future Concept Lab di Milano, oggi
“nel consumo emerge la componente concettuale che ha caratterizzato l’arte nell’ultimo secolo. Le avanguardie si sono incarnate nella vita quotidiana e i consumatori vivono in un perenne surrealismo: ricco di stimoli, sorprese e creatività”. In questo scenario
“diventa essenziale e strategico il rapporto circolare tra consumatore -nuovo protagonista creativo- nuovi linguaggi estetici e di design, ed esperienza personale riconducibile al mindset delle avanguardie”. In altre parole, nella vita di tutti i giorni il consumatore sperimenta
“comportamenti e occasioni che superano la più fervida fantasia di un Magritte o di un Max Ernst” (“7th Floor”, n. 8, p. 20). Non più rinchiusa nei compartimenti stagni dei luoghi deputati alla fruizione estetica, l’esperienza galvanizzante dell’arte si espande fino a coincidere con la vita delle persone, veicolate dalle loro cose, dai loro consumi, dai loro comportamenti, dai loro oggetti, dal loro sentire. Quello di cui
Duchamp si era accorto per primo è, secondo Morace, che la merce può essere lo strumento per una espressione artistica altrimenti impraticabile, perché è proprio tramite l’oggetto d’uso che l’arte delle avanguardie prende la via del vissuto quotidiano, esperienza che non è fruitiva ma performativa.
Non è un caso che -come testimonia la mostra
Surreal Things. Surrealism and Design, conclusa nel luglio scorso al Victoria and Albert Museum di Londra, in cui sono stati esposti trecento oggetti realizzati da artisti come
Salvador Dalí,
Elsa Schiaparelli,
Meret Oppenheim,
Carlo Mollino, oltre allo stesso Duchamp- i cimenti vissuti come i più arditi dai protagonisti delle avanguardie abbiano interessato proprio gli oggetti d’uso.
Le conclusioni che si possono trarre da quanto detto invitano a un po’ di spregiudicatezza. Se infatti la mission dell’arte è stata quella di proporre nuovi modi del sentire-concepire alle persone tutte, e non a una ristretta cerchia, non in occasioni particolari ma nella vita di ogni giorno, si rende allora necessario riflettere sul fatto che forse l’arte ha esaurito il suo compito storico, o meglio che di tale compito si è fatto carico il design, oggi in prima linea nel lavoro di spostamento, erosione, attivazione, modulazione del crinale fra possibile/impossibile, reale/surreale, quotidiano/straordinario.
Ciò, ben inteso, ammesso e non concesso che l’esperienza dell
‘aisthesis voglia essere qualcosa che riguarda tutti. Ma questa in fondo non è più una questione di scelta. È un fatto antropologico.