C’è una settimana dalla durata
eccezionale di undici giorni ed è quella della
Vienna Design Week. C’è la lunga notte dei musei.
C’è
Transitory Objects, una mostra che al fondo si interroga sul “che cosa” dell’oggetto
artistico. C’è l’installazione permanente
site specific di un noto artista che promette
una visione, per così dire, magica. Ma innanzitutto c’è un’emergenza, sì!
“C’è un uomo sul cornicione!”.
Potrebbe benissimo essere questo il grido d’allarme di qualcuno che, trovandosi
all’angolo della Babenbergstrasse tra il Kunsthistorisches Museum e il
Museumsquartier, cammini con il naso all’insù guardando in una certa direzione.
Perché vedrebbe distintamente in cima a un palazzo un individuo sul metro e
ottanta, in abito grigio, cappello a falda e cartella da lavoro, restare
immobile sull’orlo del baratro, in una inequivocabile situazione che prelude al
peggio. Il motivo per cui nessuno invochi i soccorsi è semplice. S’intuisce a colpo
d’occhio di avere a che fare con un artefatto e di conseguenza l’effetto
illusorio dell’installazione è privo di efficacia. Fingendo di ignorare – cosa
impossibile – le aste che sostengono la statua, non c’è una vera e propria
parvenza vitale di questa figura scultorea, complice il materiale utilizzato o
anche lo stile d’abbigliamento. E poi, poniamo, neppure un lembo di vestito
mosso dal vento.
Impossibile non accostare
quest’opera al lavoro di un
Maurizio Cattelan con i suoi improvvisi coup de
théâtre, talvolta scioccanti, ma le tematiche risultano radicalmente differenti
e gli esiti imparagonabili. Volendo inscenare in qualche maniera le
problematiche esistenziali della modernità, il non molto noto artista austriaco
Ronald Kodritsch ha
intitolato la sua opera
Reason to believe.
No, caro Roland, non c’è alcuna
ragione per crederci, svanisce sul nascere l’allusione a un emblematico uomo
d’affari che, in tempo di crisi, sta per prendere una decisione che si suppone
irreversibile. Così com’è l’opera non innesca il senso del dramma di un uomo
che intende dare una drastica svolta alla carriera e alla vita. Non coinvolge
perché sappiamo fin da subito che, seppure nella virtualità della dimensione
artistica, il seguito non avrà luogo.
In tempi in cui “l’arte dilaga”,
si avverte l’esigenza di fare un po’ di chiarezza, soprattutto là dove l’arte
vuole ingaggiare con la vita un duello di espropriazione/appropriazione del
reale.
In realtà, può bastare anche solo
qualche colpo di vento per inceppare il meccanismo su cui poggia un’opera.
Tocca a
Olafur Eliasson, artista delle magiche visioni, subire conseguenze indesiderate là
dove la sua opera all’aperto,
Yellow fog, evapora in un nulla di fatto. L’installazione
campeggia nella piazza Am Hof a ridosso di un palazzo dove ha sede una società
di energia elettrica. Al tramonto una nebbia artificiale, colorata di giallo
da una luce sotterranea, scaturisce radente alla base della facciata. L’effetto
fog dovrebbe
conferire all’edificio una visione evanescente, ma in realtà qualche maledetto
colpo di vento, tutt’altro che raro e imprevedibile, è sufficiente a creare
vortici e dispersioni tali da rendere il risultato goffo e insignificante. Nel
peggiore dei casi, del tipo tombini a Manhattan.
Altro spessore invece per
Transitory
Objects in corso
alla fondazione Thyssen-Bornemisza, in cui sono esposti oggetti in stato di
transito sotto due differenti profili. Da un lato sono modelli architetturali
immessi nel circuito socio-economico dell’arte contemporanea. Dall’altro sono
oggetti estetici bloccati in uno stato d’incompiutezza e indecidibilità della
loro forma finale, che tuttavia esprimono una forte potenzialità. Spesso si
presentano come complesse strutture razionali derivanti da algoritmi aperti a
molteplici possibilità, vedi la struttura cellulare di
Matthew Ritchie o il muro fatto di elementi
modulari in plastica di
Greg Lynn.
C’è poi un ineffabile spot-light accecante di
Olaf
Nicolai, che in
una stanza buia pare impazzito nei suoi rapidi movimenti lungo una colonna
metallica, o anche l’acido bricolage di onde sonore di
Florian Hecker, emesse da 14 altoparlanti che
pendono dal soffitto. Lungo il percorso s’incontrano le strutture biomorfe di
Alisa
Andrasek, di
Neri
Oxman e così via,
per terminare con una puntata nel teatro di Antonin Artaud collocato in una
caotica videoinstallazione di
John Bock.
Inevitabilmente, la fruizione
delle opere di questa mostra esplorativa si espande in una dimensione
concettuale che porta a momenti di riflessione sul significato stesso di
oggetto estetico, forse anche di una sua ridefinizione ontologica, in un ambito
allargato a vasti territori della creatività.