È difficile dopo la scomparsa di Enzo Mari (1932-2020), commentare la mostra antologica dell’artista prestato al design, inaugurata a Palazzo dell’Arte, voluta dal presidente della Triennale Stefano Boeri, rinviata per causa del lockdown. È arduo riassumere in un articolo la sua ricerca poliedrica dell’anarcoide, irriverente profeta del design che ha caratterizzato il Made in Italy dal Dopoguerra e la cultura del Novecento.
Sessant’anni di lavoro appassionato e rigoroso – interdisciplinare e dall’obiettivo etico, pensato per durare nel tempo – sono in mostra nel tempio della cultura progettuale milanese, curata da Hans Ulrich Obrist con il prezioso contributo di Francesca Giacomelli. Chissà se l’allestimento estetizzante della sua mostra enciclopedica, magistrale per raffinatezza e chiarezza espositiva di Paolo Ulian sarebbe piaciuto a Mari. Burbero e critico, iconoclasta com’era, sicuramente l’avrebbe criticata, sollevando questioni, dubbi, intenzioni e motivazioni su come e perché fare o no qualcosa. Per Mari il progetto è innovativo nella tecnologia e nei linguaggi e , e come ha scritto lui stesso, Gli oggetti non devono piacere a tutti, ma devono servire a tutti.
La mostra “Enzo Mari” (fino al 18 aprile 2021), comprende oltre 250 oggetti selezionati dal suo prezioso Archivio recentemente donato al CASVA-Centro di Alti Studi sulle Arti Visive– del Comune di Milano, che sarà ospitato nel vecchio mercato al QT8, a Milano. L’esposizione è articolata in tre parti (Sezione Storica, Piattaforma di Ricerca, Serie di video e interviste), e arricchita da una serie di contributi di artisti e progettisti internazionali, scelti da Obrist, invitati a rendere omaggio a Mari con progetti site-specific volti a cogliere la contemporaneità del suo pensiero intorno alla complessità del fare e pensare il design non soggetto all’oscillazione delle mode.
Nell’Atrio della Triennale, l’immersione nel mare magum di Enzo Mari incomincia con un contributo poetico e gioioso di Nanda Vigo, con una installazione luminosa ideata per la mostra, prima della sua scomparsa a maggio di quest’anno nefasto, che reinterpreta con il neon colorato due dei suoi lavori più celebri, 16 animali e 16 pesci. La Sezione Storica propone in parte il riallestimento dell’ultimo progetto espositivo, ideato per la mostra “Enzo Mari. L’Arte del design”, esposto alla GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino nel 2008-2009, di cui Mari aveva seguito l’allestimento, la curatela e il catalogo. Questa mostra è il suo “testamento “ poetico, filologica al suo pensiero sul design democratico che è tale quando comunica una conoscenza, concepita come un Progetto globale, totalmente ideata e realizzata dallo studio Mari, comprensiva di un corpus di opere e progetti selezionati da parte dell’autore da lui considerati più significativi della sua vasta produzione nel corso della sua attività.
La riproposta della mostra torinese ospitata al piano terra della Triennale sembra dialogare con l’antistante museo del Design Italiano, si apre con una carrellata di pitture degli anni Cinquanta, le Strutture degli anni Cinquanta e Sessanta (Arte Programmata), procede con la serie di contenitori Putrella (1958), i multipli d’arte tratti da La Serie della Natura (1961-1976), i vasi delle Nuove proposte per la lavorazione a mano in marmo. Serie Paros (1964), gli Allestimenti modulari in cartone (1964-1970) per Danese, pensati come sviluppi programmati di sequenze cellulari che danno forma a un organismo in continua crescita, il progetto per la Copertina della collana Universale Scientifica Boringhieri (1965), la sedia Box (1971) per raggiungere il culmine con Autoprogettazione (1973), le ciotole delle Proposte per la lavorazione a mano della porcellana. Serie Samos (1973), le 44 valutazioni (1976-2008), fino alla sedia Tonietta (1980). E in questo dedalico, trasversale percorso espositivo spiccano i progetti realizzati Tre piazze del Duomo (1982), l’ Allegoria della dignità (1988), le Lezioni di disegno (2007-2008), e il progetto ideazione Per il Nuovo Museo del design per la rivista “Abitare” (2209-2010). Sono opere scelte tra 2000 dell’Archivio Mari, che racchiudono il suo pensiero carsico, complesso, germinante, alla ricerca di nuove grammatiche di un fare che indaga le variazioni e cerca l’essenza, tesi verso un lavoro di riduzione formale.
Le sue attitudini progettuali rivoluzionarie nei contenuti tecnologici procedono infatti per sottrazione, piegando la molteplicità del reale a pochi elementi essenziali, codici programmati in dialogo con la società, di uno tra principali progettisti, artisti, critici e teorici del Novecento. Le opere esposte seguono un percorso cronologico senza alcuna distinzione tra discipline, tecniche o tipologie di ricerca, poiché ogni singolo oggetto ricompone il suo tempo scandito dal lavoro, rigoroso e assoluto, consacrato al di-segno intorno alla perenne ricerca di qualità formale e di verifica del suo valore in rapporto alla vita, indipendente dalle mode. Come scrisse Antonio D’Avossa, Mari è “l’unico artista e designer che coniuga l’archetipo con la neotica che, in altre parole, significa ripensare ogni volta a tutte le forme possibili, per giungere a una sola forma (un solo progetto ), quella che quasi biologicamente riesce a sopravvivere alla durezza della selezione del dispositivo progettuale innescato ogni volta da Mari”. (A. D’Avossa, Enzo Mari. Lavoro Al Centro, Milano 1999, Electa, p.11).
Per comprenderlo dobbiamo partire dalla sua volontà di rendere comprensibile, essenziale il processo di ricerca incluso nelle sue opere che riflettono l’aspirazione ideale di socializzare il progetto, renderlo inclusivo, come verifica della sua ricerca intellettuale. Non ha tempo la classicità del design di Mari, le sue opere sono programmate per durare dalle forme semplici temporalizzate secondo leggi interne di crescita, come scrive il maestro. Per Mari lo sconfinamento tra arte e design, è una regola, corrisponde alla sua libertà espressiva e indipendenza intellettuale non al servizio del mercato, come lo dimostra il suo archivio in parte esposto alla Triennale in occasione di questa mostra come patrimonio attivo, dispositivo e generatore di idee e non semplicemente un deposito di una eredità.
Attraversando le diverse sezioni si coglie nel vivo la folgorazione per il progetto di Mari prima artista e poi progettista, tra documenti inediti, prototipi e bozzetti intorno all’etica del lavoro.
La forza e il valore degli oggetti selezionati sta nella classicità delle sue forme, non soggette all’oscillazione del gusto che nel corso del tempo, come accade per l’arte, assumeranno diversi significati, perché è sempre contemporanei. Il suo metodo consiste in una sorta di minimalismo che fa riscoprire ogni volta, nelle cose, la soluzione strutturale e compositiva più semplice, la forma più essenziale, per non dire “ovvia” o necessaria in rapporto al servizio che esse offrono. Basti come esempio la Libreria Gilfo (1966), prodotta da Dino Gavina, facilmente montabile senza l’impiego di giunzioni separate, progettati per Danese, la piccola azienda (anche editore) fondata nel 1958 da Bruno Danesi e Jacqueline Vodoz, che offrì l’opportunità a Bruno Munari, che diviene il mentore di Enzo Mari di sviluppare progetti innovativi, geniali come Putrella. Sono oggetto di culto per i collezionisti i calendari Formosa (1963), Timor (1967), il posacenere Borneo (1967), e il letto Day-Night (1971), divano letto in metallo dallo schienale rotante, davvero geniale ed ergonomico.
Per Mari la forma è tutto, non è al servizio della bellezza estetica, bensì un segno di devozione al lavoro, come lui scrive Forma è ciò che è, non ciò che sembra.
I suoi progetti sono il frutto di una pulsione profonda dell’uomo, come l’istinto di sopravvivenza, la fame, il sesso, scrive il designer, e aprono riflessioni sul rapporto tra arte/design, bello/utile, utopia / mercato, e mirano a comunicare il valore del progetto, nella morsa della produzione il consumo, per riconfigurare la complessità del prodotto industriale, anche nel gioco di negoziazione tra intuizione artistica del design e mercato.
Mari è un umile e orgoglioso, razionale ma appassionato, concentrato sul rapporto tra significato e significante delle forme del design, alla ricerca di un linguaggio formale e visuale che si evince nelle sue opere. Seduce il tavolo autoprogettato del 1976, come esempio di tecnica elementare ma sofisticato nel pensiero. La seconda sezione Piattafoma Espositiva, è costituita da un nucleo di opere che documentano la vastità dei suoi interessi , con schizzi, ricerche iconografiche, modelli, prototipi, disegni, sviluppi sistemici e modellazioni di disegni tecnici e tanto altro ancora, volte a testimoniare l’autonomia espressiva e progettuale e di sperimentazione di Mari. E tra la miriade di progetti esposti, l’allestimento della mostra “Voudou. Vodun: African Voodoo” (2011), che Mari ha progettato per la Fondation Cartier di Parigi (con la quale la Triennale ha avviato una collaborazione della durata di otto anni con l’obiettivo di proporre a Milano un vasto programma condiviso di mostre e di performances), restano impresse sculture totemiche, incastonate in un ambiente essenziale, consacrato alla meditazione. Lungo il percorso espositivo si resta in bilico tra l’analisi delle opere nate dall’esigenza dell’autore di indagare la forma e al tempo stesso di contestare la realtà, design come autocritica, specchio della responsabilità individuale nella prospettiva di una più consapevole responsabilità collettiva.
Tra gli altri allestimenti si distingue per contemporaneità, la Libreria viaggiante (1956), un autocarro trasformato in una saletta d’esposizione di libri Bompiani, una profetica intuizione che ha dato origine alle attuali biblioteche nomadi, api o bus che portano i libri nei quartieri e nelle periferie soprattutto nei piccoli borghi decentrati d’Italia, là dove non ci sono ne librerie ne tanto meno biblioteche, all’insegna di una democratizzazione della cultura e conoscenza.
E dopo tutto questo lavoro, qual è infine l’obiettivo di Enzo Mari? Non è quello di sedurci con forme belle, create per far capire alla gente la qualità di un progetto, non superfluo ma essenziale contro l’obsolescenza del design. Mari è un sovversivo radicale, oggi integrato e celebrato, tra gli anni Sessanta e Settanta contro l’industria del design, e così operando tra idealismo e critica, teoria e prassi e viceversa ha portato produttori e consumatori a una maggiore consapevolezza e responsabilità di scelta di prodotti migliori.
L’ultima provocazione intellettuale di Mari? Sta nel video (2020), realizzato da Adrian Paci collocato al termine del percorso espositivo, in cui il volto scolpito dal tempo del “Platone del design”, come è stato definito, il profeta-asceta con la folta barba bianca, avvolto dal fumo di un toscano ci chiede : “Prova a pensare ad un Dio”, e ancora “Che Dio vorresti avere”?
Contributi di artisti e progettisti internazionali in mostra a cura di Hans Ulrich Obrist: Adelita Husani-Bey, Tacita Dean, Dominique Gonzalez- Foerster, Mimmo Jodice, Dozie Kau, Adrian Paci, Barbara Stauffacher Solomon, Rirkrit Tiravanija, Danh Vo, Nanda Vigo, Virgil Abloh per il progetto di merchandising.
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