A via Martucci 48, nel rione bene di Napoli, si entra in un portone e ci si aspetta di trovarsi all’interno di un palazzo. Ci si trova, invece, in un’altra strada, una strada più antica, con i basoli di pietra vesuviana. A destra, c’è una breve discesa in forte pendenza, con i passamano per chi vuole. La si imbocca e ci si trova a passeggiare tra le fondamenta di un edificio. Dove c’è un mondo tutto pieno di luce bianca: è il Plart, il luogo della plastica, ma non solo.
Le lampade led distinguono a uno a uno gli oggetti in mostra, oggetti comuni, creati nell’arco di un centinaio d’anni e un tempo in uso, ora non più. Sono via via cambiati insieme al tempo e il mondo è cambiato con loro. C’è un calamaio per la penna con il pennino, una radio, delle spazzole e poi pettini, fermagli, spille, mangiadischi, telefoni, ventagli, pupazzi di Topolino, Paperino, Topo Gigio, King Kong.
Testimonianze di un mondo che ha preceduto quello di oggi e lo ha preparato. 2mila e più oggetti, testimoni storici del tempo passato: una grande varietà di tipi, colori e materie, dacché anche quelle create dall’uomo, cioè le materie plastiche, sono di vario genere: dalla più antica, il rayon (nato nel 1855), al nylon, alla celluloide e alle pellicole cinematografiche, alla bachelite e al famoso Moplen, inventato, circa 70 anni fa, dall’italiano Premio Nobel Giulio Natta (1903-1979).
Negli anni Sessanta del secolo scorso, ci fu il boom della plastica, una materia economica indistruttibile, così duttile, docile, pronta a prendere varie forme, per esaudire le esigenze della società e quelle dell’industria. Si inventarono e diffusero nuovi oggetti, a cui la plastica diede nuove forme. Sono oggetti diventati comuni, quelli che ora sono in mostra al Plart. Non sono pezzi unici ma neanche copie, sono multipli con una tiratura controllata e hanno forme curate, precisamente eseguite, eleganti, prima che la diffusione di massa le rendesse sguaiate.
Nel Plart c’è l’apogeo della plastica. Che viene forgiata anche per le sculture di grandi artisti che, a volte, sono mostrate nelle sue sale, come quella del tedesco Anselm Kiefer (1945). Ma proprio a proposito di queste opere d’arte, si nota che esse, con il passare del tempo, essendo la plastica deformabile, vengono deteriorate. Si cerca di trovarvi il rimedio, ci si impegna anche a creare materie nuove ed ecosostenibili.
Perché la plastica tradizionale è indistruttibile e, come tale, viene messa sotto accusa. Con il suo uso smodato ha invaso il mondo, la terra e il mare, gli oceani, si sono formate naturalmente delle isole fatte dai suoi rifiuti. Ora quindi si applaude a un bruco scoperto, nel 2017, da una scienziata italiana, Federica Bertocchini, che distrugge la plastica mangiandola, letteralmente. E il Plart dimostra la sua consapevolezza del presente e la sua capacità di progettare il futuro.
Così l’8 ottobre, in occasione del XVIII Giornata del Contemporaneo promossa dall’associazione dei musei d’arte contemporanea AMACI, ha inaugurato Plart Vision, un’installazione multimediale volta ad attrarre e stupire con l’attualità della sua bellezza e della sua tecnica avanzatissima. Subito dopo, ha ospitato, sotto l’egida del PHEA, il Plastic Heritage European Congress 2022, un congresso internazionale, giunto alla sesta edizione, sui temi della conservazione del patrimonio storico della plastica, volto a soluzioni ideologiche e tecnologiche internazionalmente condivisibili. Ancora, il 3 dicembre, alla cifra simbolica di 1 euro, è stata aperta al pubblico tutta la rassegna Plart. E viene messo in palio un disegno dell’artista Felix Policastro, prodotto in 50 esemplari, che rappresenta un albero le cui infiorescenze simboleggiano le virtù da praticare il prossimo Natale.
Autrice e curatrice di queste iniziative è una piccola grande donna: Maria Pia Incutti, una sognatrice che ha avuto la straordinaria capacità di realizzare un suo sogno. «45 anni fa ho incominciato a collezionare oggetti di plastica. “Sei una pazza è una collezione senza senso”, mi dicevano. Ma ho continuato ed ecco qua il Plart, una raccolta che è un giacimento del design». La dottoressa Incutti afferma che il disegno industriale, quando è opera di un vero artista, è arte.
Eppure c’è ancora qualcuno, per fortuna pochi, che afferma che gli oggetti fatti dall’industria non hanno valore artistico. Ma la storia li contraddice. L’arte è sapienza del fare e i nostri antenati greci la chiamavano tecnè. Ed è anche contemplazione, come affermava, un tempo, il filosofo tedesco Arthur Shopenhauer (1788-1860). Nel contesto storico-culturale della Repubblica di Weimar, alla sconfitta della Prima guerra mondiale, in Germania sorse la Bauhaus (in tedesco “capannone”), una scuola di disegno per oggetti prodotti in serie dall’industria, che ha operato dal 1919 al 1933, quando fu chiusa perché invisa al Nazismo. Ebbene, Walter Gropius, il suo fondatore, programmava oggetti disegnati da un artista ed eseguiti con l’aiuto di un maestro artigiano. Il disegno industriale, dunque, è arte.
Ma comunque, se arte è creazione, anche le nuove forme create per realizzare i nuovi oggetti tecnologici hanno valore artistico. E lo stesso Plart, fatto di nuovi spazi, oggetti, forme e colori, è un’opera d’arte, creata da un’artista che ha realizzato appassionatamente quello che aveva immaginato.
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