Visitare il Museo della macchina per Caffè significa guardare il corso del Novecento attraverso la lente dell’innovazione, del progetto, del design, del costume di oltre un secolo di storia italiana. Significa partire dagli albori della città moderna, passare dal razionalismo degli anni Trenta, dal periodo del boom economico, dall’edonismo degli anni Ottanta, arrivando fino all’introduzione dell’elettronica e infine del digitale all’interno del prodotto; ma anche apprendere dagli sviluppi più recenti come questa fascia di mercato risponda alle necessità odierne, come le nuove forme di distribuzione e l’attenzione alla sostenibilità. La storia del consumo e della società – quindi la nostra storia – permea l’intero percorso museale conservato all’interno del MUMAC, perla del Gruppo Cimbali situato a Binasco, alle porte di Milano e diretto da Barbara Foglia. Nato nel 2012 in occasione del centenario della fondazione dell’impresa da parte di Giuseppe Cimbali a Milano, questo peculiare museo d’impresa ospita oltre 350 esemplari di macchine del caffè professionali, di cui 100 esposte in ordine cronologico, divise in sette sale che rievocano le ambientazioni dell’epoca e provenienti da due diverse collezioni: da una parte quella della famiglia Cimbali, e dall’altra quella di Enrico Maltoni, considerato il più grande collezionista di questo ambito.
Come è noto, in Italia raccontare la cultura del caffè significa parlare di una storia collettiva e condivisa che continua a guardare il futuro ponendosi non pochi interrogativi; essa riguarda non solo i professionisti del settore, e si intreccia in questo luogo con la vicenda personale del fondatore Giuseppe Cimbali, che negli anni Trenta apre un negozio per la lavorazione del rame in centro a Milano specializzandosi progressivamente in macchine da caffè e dando il via a un’azienda centenaria di cui tutt’oggi fa parte la famiglia. Tra gli esemplari più antichi in mostra troviamo la Pavoni “Ideale”, creata nel 1905, composta da linee curve in stile liberty e arricchita con fregi in metallo che riprendono la forma delle foglie del caffè. Siamo in un’epoca in cui la parola “bar” non è ancora entrata nell’uso corrente e la bevanda dà il nome al locale in cui viene servita: il “caffè” per l’appunto, luogo ricreativo destinato alle élite che qui si incontrano nel tempo libero. Questo antesignano della macchina del caffè presenta ancora una serie di ingranaggi che la fanno assomigliare a un macchinario della fabbrica non semplice da mettere in funzione, tanto che chi ha il compito di azionarla prende il nome di “macchinista” e deve disporre di un patentino apposito per non rischiare esplosioni.
Le cose cambiano nel secondo Dopoguerra, quando il milanese Achille Gaggia si rivolge a Carlo Ernesto Valente, presidente di Faema (Fabbrica Apparecchiature Elettro Meccaniche e Affini), per mettere in commercio la prima macchina a leva, una rivoluzione tecnologica che permette di estrarre il caffè tramite la pressione dell’acqua e non più a vapore. Nasce il vero “caffè espresso”: il costo diminuisce, la distribuzione aumenta, e la bevanda si afferma come abitudine collettiva. Progressivamente cambia anche tutta la ritualità del suo consumo: a usufruirne sono tutti i lavoratori e non più una nicchia. Si diffonde la consuetudine del bancone, tanto che in seguito si comincerà a disegnare macchine da posizionare alle spalle del barista per lasciare spazio sul bancone e ai suoi avventori. Cambia anche la prossimità con il cliente, la velocità di fruizione, la consuetudine della quotidianità e quella frase “il solito, grazie!” che riempie i nostri immaginari. La ricostruzione dei locali (caffè o bar, a seconda delle diverse denominazioni), presente in diverse sale del museo, è essenziale per comprendere il cambiamento dei consumi e dei costumi. Ma la storia della macchina del caffè si intreccia anche alla visionarietà dei grandi designer che su questo prodotto hanno lasciato la propria traccia: risale al 1947 “La Cornuta” disegnata da Gio Ponti per la Pavoni (ad oggi ne esistono solo due esemplari al mondo), con il suo design scintillante che si staglia dal corpo cilindrico e la rende una vera e propria scultura in metallo.
Dopo di lui, altri maestri hanno firmato modelli di design, tra cui Bruno Munari e Enzo Mari, che hanno lavorato in coppia firmando La Diamante, i fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Roberto Bonetto, Marco Zanuso, Ettore Sottsass, fino all’assegnazione del Compasso d’Oro, arrivato nel 1962 grazie alla Pitagora dei Fratelli Castiglioni, prodotta da La Cimbali. Queste e altre storie si possono scoprire al MUMAC, la cui riconoscibile struttura è frutto dell’invenzione dell’architetto Paolo Balzanelli e dell’ingegnere Valerio Cometti. Una conoscenza che si estende oltre le sale espositive, con la Biblioteca storica del Caffè, il centro di formazione MUMAC Academy e il centro polifunzionale a disposizione per eventi e attività che richiamano il pubblico oltre la singola visita alle collezioni. Una realtà che varca costantemente le mura della sua sede, attraverso prestiti internazionali che portano la cultura del caffè e la storia del made in Italy in tutto il mondo.
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